«L’Arcidivino Mendenal di Cardegoss conosce tutta questa storia», garantì all’Arcidivino e al giudice, che lo stavano fissando con aria sconvolta; quanto a Palli, la sua espressione esprimeva nel contempo stupore e indignazione, e Cazaril, con aria alquanto colpevole, evitò d’incontrare il suo sguardo. «Quando però dy Jironal ha ordinato ai suoi uomini di tenermi fermo, disarmato com’ero, e mi ha trapassato con la spada… quando mi ha assassinato, il demone della morte ci ha portati via tutti, in una squilibrata confusione di assassini e di vittime. Per meglio dire, il demone ha portato via i due dy Jironal, però la mia anima era collegata alla loro e li ha seguiti. Quello che ho visto allora… la Dea…» Per un momento, la voce gli si spense, poi riprese: «Non so come fare per esprimere quell’universo a parole, perché non ne esistono di adeguate. Se pure conoscessi tutti i vocaboli di tutte le lingue del mondo, presenti, passati e futuri, e se pure parlassi sino alla fine dei tempi, comunque non potrei…»
Interrompendosi ancora, rabbrividì, e scoprì di avere gli occhi offuscati di lacrime.
«Però non eri realmente morto, vero?» domandò Palli, a disagio.
«Oh, sì, per un poco lo sono stato… sebbene, da una certa angolazione, quel ’poco’ sia invece ’molto’», rispose Cazaril. «Se non fossi morto davvero, non avrei potuto lacerare la barriera tra i mondi e la Dea non sarebbe passata per recuperare la maledizione che, per come posso descriverla, era in effetti una goccia del sangue del Padre dell’Inverno, anche se non ho idea di come abbia fatto il Generale Dorato a ricevere un simile dono. In ogni caso, la mia è soltanto una metafora. Mi dispiace, ma non so come spiegare quello che ho visto: parlarne è come cercare d’intrecciare un canestro d’ombra con cui trasportare dell’acqua», aggiunse, pensando che, dopotutto, le loro erano anime assetate. «La Signora della Primavera mi ha permesso di guardare attraverso i suoi occhi e, per quanto creda che la seconda vista mi sia stata tolta, adesso la vista fisica non funziona esattamente come prima…»
L’Arcidivino si segnò con reverenza, mentre Paginine si schiariva la gola per dire: «In effetti, mio signore, non emanate più quella grande luce accecante».
«Non la emano più? Oh, bene!» esclamò Cazaril. Poi, in tono ansioso, domandò: «Ma anche il mantello nero che avvolgeva Iselle e Bergon è scomparso, vero?»
«Sì, mio signore. Royse, Royina, vi informo con piacere che l’ombra sembra completamente svanita.»
«Allora va tutto bene. Dei, demoni, spettri, tutto quanto è scomparso, e in me ora non c’è più nulla di strano», commentò allegramente Cazaril.
«Io non mi spingerei ad affermare una cosa del genere, mio signore», mormorò Paginine, con una strana espressione.
«Però lui sta dicendo la verità, non è così?» sussurrò l’Arcidivino, assestando una gomitata a Paginine. «Per quanto possa sembrare assurda…»
«Oh, sì, Vostra Reverenza, non ho dubbi in proposito», garantì il piccolo giudice, ma lo sguardo che scoccò a Cazaril espresse molta più comprensione di quello dell’Arcidivino, che appariva sconcertato e sopraffatto, colmo di timore reverenziale.
«Domani, Bergon e io ci recheremo al Tempio in processione di ringraziamento, camminando scalzi in segno di gratitudine verso gli Dei», annunciò Iselle.
«Oh. Allora state attenti a non camminare su un pezzo di vetro o un vecchio chiodo», li ammonì Cazaril, con voce un po’ impastata. La sua mano si spostò sul copriletto fino a trovare quella di Betriz, e lui aggiunse, rivolto a lei soltanto: «Sai, adesso non sono più infestato, e questo mi toglie un peso dalla mente. Queste cose sono decisamente liberatorie, per un uomo…» La sua voce stava diventando sempre più fievole. Accorgendosene, Betriz girò la propria mano in quella di lui e la strinse.
«Adesso è meglio che ce ne andiamo e vi lasciamo riposare», decise Iselle, accigliandosi. «C’è qualcosa che desiderate, Cazaril? Qualsiasi cosa.»
Lui stava per replicare che non gli serviva nulla, ma poi cambiò idea. «Oh, sì… Vorrei della musica.»
«Della musica?»
«Magari molto pacata, che gli concili il sonno», suggerì Betriz.
«Se non ti dispiace, Lady Betriz, provvedi a convocare un musico», sorrise Bergon.
Poi la piccola folla se ne andò, in punta di piedi, ma tutt’altro che silenziosamente. Il medico rientrò e fece bere a Cazaril un po’ di tè. Poco dopo, Cazaril usò il pitale e il medico esaminò la sua urina — che era mista a sangue — alla luce delle candele, con fare sospettoso e con una sorta di ringhio basso e sconcertante.
Dopo qualche tempo, Betriz tornò con un giovane suonatore di liuto dall’aria nervosa. Sembrava che l’avessero destato da un sonno profondo per soddisfare quella richiesta di un’esibizione notturna.
Accordato lo strumento, il giovane eseguì sette brevi brani, nessuno dei quali ebbe il potere di evocare la Signora e i suoi fiori dell’anima; l’ottavo brano, però, un contrappunto di una dolcezza incredibile, parve racchiudere nelle proprie note una vaga eco del paradiso. Cazaril lo fece eseguire altre due volte e infine versò qualche lacrima, al che Betriz decise che lui aveva davvero bisogno di dormire. Per cui congedò il musico, uscendo insieme con lui.
Cazaril si rese conto che non aveva ancora avuto modo di parlarle del miracolo rappresentato dal suo naso. Quando cercò di spiegare la cosa al medico, questi reagì somministrandogli un grosso cucchiaio di sciroppo di succo di papavero. Da quel momento, cessarono entrambi di allarmarsi a vicenda per il resto della notte.
Nell’arco di tre giorni, quello strano fluido profumato smise di colare dalle ferite, che si chiusero senza infezioni, e il medico permise a Cazaril di mangiare a colazione un po’ di farinata d’avena molto liquida. Quel nutrimento, per quanto leggero, lo rimise abbastanza in forze e lui chiese il permesso di uscire a sedersi in cortile, sotto il sole primaverile. Accompagnato da una quantità eccessiva di servitori e aiutanti, Cazaril venne scortato lungo le scale e sistemato su una sedia coperta di cuscini rivestiti di lana e imbottiti di piume, coi piedi appoggiati a un’altra sedia dotata di cuscini. Allontanati i suoi assistenti, Cazaril si abbandonò allora con piacere all’ozio più assoluto, ascoltando il rilassante gorgogliare della fontana e contemplando i fiori fragranti di cui erano ammantati gli alberi nei vasi. Poco lontano, un paio di uccellini arancioni e neri solcavano l’aria, trasportando erba secca e ramoscelli con cui costruire un nido, sistemato in uno degli intagli delle colonne di sostegno della galleria. Cazaril si perse a osservare le loro manovre, del tutto dimentico del mucchietto di fogli di carta e delle penne sistemati su un tavolinetto, accanto a lui.
Da quando gli ospiti reali e il loro seguito di nobili si erano trasferiti a Cardegoss, il palazzo di dy Baocia si era fatto molto tranquillo e silenzioso. Cazaril sorrise con piacere nel vedere il cancello di ferro battuto dell’arcata d’ingresso che si apriva per far passare Palli, cui la nuova Royina aveva assegnato il noioso compito di sovrintendere alla convalescenza del suo segretario, mentre lei era impegnata coi grandi eventi della capitale. Quell’incarico sembrava a Cazaril un’iniqua ricompensa per i fedeli e coraggiosi servigi resi da Palli, ma, d’altro canto, l’amico lo aveva assistito con tanta cura che, a volte, Cazaril si sentiva perfino in colpa per aver desiderato, senza rivelarlo, che Iselle lasciasse presso di lui Lady Betriz.
Sorridendo, Palli gli rivolse un cenno di saluto e si sedette sul bordo della fontana. «Castillar, hai un aspetto davvero migliore, decisamente molto… verticale!» commentò, poi, indicando il tavolo, aggiunse: «Ma cos’è questo lavoro? Ieri, quando sono partite, le tue dame mi hanno ordinato di accertarmi che tu rispettassi una lunga lista di cose da non fare. Anche se ne ho già dimenticata la maggior parte — cosa che senza dubbio ti farà piacere -, sono certo che il lavoro occupasse uno dei primi posti di quell’elenco.»