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«C’è un angolo dove mi possa sedere, signora?» chiese, quando la lavandaia fece capolino nella bottega in risposta al suono del campanello. «Io… ho finito prima del previsto…»

Soffocato dalla vergogna, non riuscì a concludere la frase, ma la donna si limitò a scrollare le spalle robuste. «Ah, sì, certo, venite con me. Ah, un momento», aggiunse, chinandosi dietro il bancone e mostrando un libretto grande quanto la mano di Cazaril, rilegato in cuoio grezzo. «Ecco il vostro libro. Siete fortunato che abbia controllato le tasche, altrimenti adesso sarebbe ridotto in poltiglia, ve lo garantisco.»

Sorpreso, Cazaril prese il volumetto. Probabilmente era nascosto nelle spesse pieghe della sopravveste del morto, e ciò gli aveva impedito di scoprirlo quando aveva frettolosamente arrotolato gli abiti, al mulino. Naturalmente avrebbe dovuto essere consegnato alla Divina del Tempio, per essere aggiunto al resto degli averi del defunto. Per questa natte non tornerò di certo fin là, si disse, decidendo che avrebbe consegnato il libro non appena possibile.

«Vi ringrazio, signora», si limitò quindi a rispondere alla lavandaia, seguendola poi nel cortile centrale, simile a quello dei bagni vicini e dotato di un profondo pozzo, accanto al quale bolliva un calderone pieno d’acqua. Quattro giovani donne erano impegnate su altrettante tinozze, in una miriade di spruzzi. La proprietaria della bottega gli indicò una panca addossata al muro, e lui si sedette fuori della portata degli schizzi, rimanendo per qualche tempo a fissare in uno stato di astratta beatitudine quella pacifica scena. Un tempo, non si sarebbe mai degnato di volgere lo sguardo su un gruppo di contadine dal volto arrossato, riservando la propria attenzione soltanto per le dame eleganti. Come aveva fatto in precedenza a non rendersi conto di quanto potessero essere belle le lavandaie? Forti e ridenti, si muovevano come per una danza, ed erano gentili, così gentili…

Dopo qualche tempo, la sua curiosità si risvegliò e lo indusse a riprendere in mano il libro, pensando che forse avrebbe trovato il nome del morto, risolvendo così il mistero della sua identità. Ma, quando lo aprì, scoprì che le sue pagine erano coperte da una selva di annotazioni, intervallate da diagrammi, e scritte interamente in codice.

Sbattendo le palpebre, si concentrò maggiormente sullo scritto e il suo sguardo, agendo quasi di propria volontà, cominciò a decifrare la chiave del codice. Si trattava di una scrittura speculare, abbinata a un sistema di sostituzione di lettere, un sistema che poteva essere faticoso da interpretare. Ma una breve parola era ripetuta tre volte nella stessa pagina e gli fornì la chiave che stava cercando. Il mercante aveva scelto un metodo di codifica quanto mai elementare, limitandosi a spostare ciascuna lettera di una posizione, senza neppure prendersi la briga di modificare a tratti quella sequenza. D’altro canto, però, quella non era la lingua ibrana, parlata nei suoi diversi dialetti nelle royacy di Ibra, Chalion e Brajar, bensì la lingua darthacana, parlata nelle province più meridionali di Ibra e nella grande Darthaca, al di là delle montagne. Inoltre la calligrafia del morto era orribile, l’ortografia era ancora peggiore e la padronanza della grammatica darthacana sembrava quasi inesistente. Decifrare quel testo poteva rivelarsi più difficile di quanto aveva pensato; avrebbe avuto bisogno di carta e penna, di un posto tranquillo, di tempo e di una buona illuminazione. Ma le cose avrebbero potuto essere anche peggiori, per esempio se si fosse trattato di un roknari sgrammaticato…

Era comunque evidente che quel libretto conteneva le annotazioni sugli esperimenti magici del morto. Se non fosse stato già defunto, sarebbe stato più che sufficiente a condannarlo e a mandarlo sulla forca. La punizione per coloro che praticavano — anzi che tentavano di praticare — la magia di morte era spietata. La condanna per chi fosse riuscito nel suo intento in genere veniva considerata superflua perché non si conosceva nessun caso di assassinio mediante magia di morte che non fosse costato la vita anche a colui che aveva praticato il rito. Quale che fosse il vincolo mediante il quale l’esecutore del rito costringeva il Bastardo a inviare nel mondo uno dei suoi demoni, la cosa certa era che esso tornava sempre indietro con due anime, mai con una sola.

Stando così le cose, pareva evidente che la notte precedente qualcun altro dovesse essere morto nella Baocia. Per sua natura, quindi, la magia di morte non era molto popolare, in quanto non permetteva di ricorrere a simulacri o a un sostituto che venisse ucciso al posto dell’officiante del rito: uccidere voleva dire essere ucciso. Il coltello, la spada, il veleno, un randello… qualsiasi altro mezzo era preferibile, se l’autore del crimine voleva sopravvivere; talvolta, però, qualcuno ci provava, forse con l’illusione di cavarsela o per semplice disperazione. Quel libro andava assolutamente consegnato alla Divina del Tempio rurale, che a sua volta l’avrebbe dato al responsabile delle indagini incaricato dal Roya. Raddrizzandosi sulla panca, Cazaril aggrottò la fronte con preoccupazione e si decise infine a chiudere quel pericoloso volumetto.

Il caldo del vapore, il ritmo del lavoro, delle voci delle donne e il suo stesso sfinimento lo indussero a sdraiarsi su un fianco e a raggomitolarsi sulla panca, col libro sotto la guancia come cuscino, dicendosi che avrebbe chiuso gli occhi solo per un momento…

Si svegliò in un sussulto che gli provocò una contrazione al collo, le dita serrate intorno a qualcosa di sconosciuto, che risultò fatto di lana… Una delle lavandaie gli aveva gettato addosso una coperta, un gesto di gentilezza così spontaneo che gli fece sfuggire dalle labbra un involontario sospiro di gratitudine. Sollevatosi a sedere, constatò che ormai il cortile era quasi tutto in ombra, segno che doveva aver dormito per la maggior parte del pomeriggio. Il suono che lo aveva svegliato era stato il tonfo prodotto dai suoi stivali, lucidati il più possibile, che la lavandaia gli aveva lasciato cadere davanti prima di deporre accanto a lui, sulla panca, tutti i suoi abiti puliti e ripiegati, sia quelli eleganti che quelli da mendicante.

«Signora, avete una stanza dove mi possa vestire?» chiese Cazaril, con fare timido, ricordando la reazione del ragazzo dei bagni alla vista della sua schiena.

Annuendo con aria cordiale, la donna lo accompagnò in una modesta camera da letto in fondo alla casa e lo lasciò solo. Alla luce del tramonto, che trapelava dalla piccola finestra, Cazaril passò al vaglio i propri indumenti puliti, adocchiando con repulsione gli squallidi abiti da mendicante che aveva avuto indosso per settimane. Infine, la vista di uno specchio ovale, l’oggetto più prezioso della camera, appoggiato in un angolo su un piedistallo, lo decise nella scelta.

Con esitazione, e recitando un’ennesima preghiera di ringraziamento allo spirito del defunto da cui aveva inaspettatamente ereditato quegli abiti, indossò i pantaloni di cotone, la fine camicia ricamata, la veste di lana marrone e infine la sopravveste nera, che gli ricadde all’intorno in una ricca profusione di stoffa scura, scintillante d’argento intorno alle caviglie. Gli abiti del morto erano della lunghezza giusta, anche se un po’ ampi per il suo corpo smagrito. Sedette sul letto e s’infilò gli stivali, che avevano i tacchi parzialmente consumati e la suola tanto logora da essere ormai sottile quasi quanto la pergamena. Quindi si avvicinò allo specchio, pensando che non si era più riflesso in nulla di più grande o di migliore di un pezzo di acciaio lucido da… Quanto? Da tre anni? Adesso, invece, lo specchio che aveva davanti era di vetro, ed era inclinato in maniera tale da permettergli di vedere la propria figura da capo a piedi, prima la metà superiore e poi quella inferiore.

Il volto che lo fissò dallo specchio era quello di uno sconosciuto. Per i cinque Dei, ma da quando la mia barba è diventata grigia? si chiese, sollevando una mano tremante a sfiorare la barba corta e curata che gli incorniciava i lineamenti. Se non altro, i capelli, anch’essi tagliati di fresco, non accennavano ancora ad assottigliarsi sulla fronte. Dovendo scegliere se definirsi un mercante, un nobile o uno studioso, sulla base degli abiti che indossava, avrebbe senza dubbio optato per l’ultima possibilità. Uno studioso un po’ fanatico, con gli occhi incavati e l’espressione vagamente folle… Non aveva catene d’oro o d’argento, un sigillo, un’elegante cintura di metallo prezioso o adorna di gemme, né anelli che proclamassero la sua appartenenza a una classe più elevata. D’altro canto, gli parve che la linea fluente di quella veste gli si addicesse e, d’istinto, cercò di raddrizzare un po’ la schiena.