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Comunque stessero le cose, ormai il lacero vagabondo era svanito, e l’uomo che aveva davanti non era certo tale da implorare un posto da sguattero presso il cuoco di un castello.

All’inizio aveva pensato di spendere gli ultimi vaida per affittare una camera e presentarsi alla Provincara l’indomani mattina, ma in quel momento si chiese, con disagio, se il gestore dei bagni non avesse messo in giro qualche pettegolezzo sul suo conto, col risultato di vedersi negare l’accesso a qualsiasi locanda rispettabile.

Devo andare adesso, stanotte, si disse. Avrebbe raggiunto subito il castello, prima che fosse troppo buio, per scoprire se riusciva a ottenere un aiuto. Non potrei trascorrere un’altra notte nell’incertezza. Devo andare ora, prima che il coraggio mi venga meno.

Riposto il libretto nella tasca interna della sopravveste in cui, a quanto pareva, era già stato nascosto in precedenza, lasciò gli abiti da vagabondo ammucchiati sul Ietto e uscì a grandi falcate dalla stanza.

2

Mentre saliva l’ultimo pendio che conduceva al portone del castello, Cazaril rimpianse di non aver potuto procurarsi una spada. Le due guardie, abbigliate con la livrea verde e nera del Provincar della Baocia, lo stavano infatti osservando: non sembravano allarmate, proprio perché lui non portava armi, tuttavia non manifestavano neppure quell’interesse che di solito apriva la strada al rispetto. Cazaril salutò la guardia che portava sul cappello i gradi di sergente, limitandosi a un misurato, austero cenno del capo. L’atteggiamento servile che aveva pensato di assumere sarebbe andato bene per qualche porta secondaria, non per quella principale; aspettandosi di ottenere qualcosa di più, doveva agire di conseguenza. Se non altro, grazie alla gentile disponibilità della lavandaia, sapeva di chi doveva chiedere.

«Buonasera, sergente. Sono qui per vedere il siniscalco del castello, Ser dy Ferrej. Sono Lupe dy Cazaril», disse, lasciando che il sergente supponesse, sbagliando, che lui era stato convocato.

«Per quale motivo, signore?» ribatté il sergente, in tono cortese, ma senza particolare sollecitudine.

Cazaril squadrò le spalle. Chissà da quale inutilizzato magazzino della sua mente giunse un tono di voce secco e imperioso. «Il motivo riguarda soltanto lui, sergente», replicò.

«Sì, signore», rispose il sergente, salutandolo automaticamente e avvertendo con un cenno del capo il suo compagno di fare altrettanto. Poi indicò a Cazaril di oltrepassare il portone, aggiungendo: «Da questa parte, signore. Vado a chiedere al siniscalco se vi può ricevere».

Lasciando vagare lo sguardo sull’ampio cortile coperto di acciottolato, Cazaril si sentì stringere il cuore. Quante scarpe aveva consumato, correndo avanti e indietro su quelle pietre per assolvere gli incarichi affidatigli da membri della famiglia del Provincar… Il maestro dei paggi si era persino lamentato per i troppi investimenti in partite di cuoio, ma la Provincara, ridendo, gli aveva domandato se avrebbe davvero preferito un paggio pigro, che consumasse invece la stoffa del fondo dei pantaloni, aggiungendo che, se così era, avrebbe provveduto lei a procurargliene qualcuno.

A quanto pareva, la Provincara gestiva ancora il castello con occhio acuto e mano decisa, dato che le livree delle guardie erano in condizioni eccellenti, l’acciottolato del cortile sembrava ben spazzato e i piccoli alberi ancora spogli che crescevano nei vasi, accanto alle porte principali, erano attorniati da fiori, sbocciati con perfetto tempismo per la celebrazione del Giorno della Figlia, prevista per il giorno dopo.

La guardia fece capire a Cazaril di rimanere in attesa, e lui sedette su una panca addossata al muro, ancora gradevolmente calda di sole. Il sergente oltrepassò una porta laterale, che dava accesso alle stanze di lavoro, e parlò con un servitore, affidandogli l’incarico di verificare se il siniscalco intendeva ricevere quello sconosciuto. Non aveva ancora superato metà della distanza che lo separava dalla sua postazione, quando il suo compagno si sporse oltre il portone, affacciandosi nel cortile e gridando: «Il Royse ritorna!»

Girando la testa verso gli alloggi dei servi, il sergente si affrettò a ripetere quel grido. «Il Royse ritorna! Tenetevi pronti!» E accelerò il passo.

Scudieri e servitori uscirono da diverse porte che si affacciavano sul cortile, proprio mentre un martellare di zoccoli e alcune voci echeggiavano fuori del portone. Ad attraversare l’arcata di pietra, accompagnate da una fanfara di poco signorili ululati di trionfo, furono anzitutto due giovani donne in sella a cavalli ansimanti e chiazzati di fango.

«Abbiamo vinto noi, Teidez!» gridò la prima, da sopra la spalla. Indossava una giacca da equitazione di velluto azzurro, abbinata a una lunga gonna pantalone di lana dello stesso colore; i suoi capelli, che sfuggivano dal cappellino di pizzo un po’ di traverso, erano una massa di riccioli né biondi né rossi, ma piuttosto di un intenso colore ambrato, che splendeva sotto i raggi del sole al tramonto. Quella massa dorata incorniciava un volto dalla bocca generosa e dalla pelle chiara, illuminato da occhi dalle palpebre stranamente pesanti, semichiusi in un’espressione ridente. La sua compagna, di statura più alta, era un’ansimante brunetta vestita di rosso; si girò sulla sella con un sogghigno per osservare il resto del gruppo che stava affluendo nel cortile.

Sopraggiunse un gentiluomo, ancora più giovane delle due dame, abbigliato con una corta giacca scarlatta decorata da animali eseguiti in filo argentato. Stava in sella a un impressionante cavallo nero, dal pelo lucido e dalla lunga coda setosa. Il giovane era affiancato da due scudieri dal volto del tutto inespressivo e seguito da un altro gentiluomo dall’aria accigliata, i cui capelli ricciuti erano identici a quelli della… sorella? — Sì, senza dubbio è la sorella… — però avevano una tonalità più rossa. La bocca appariva altrettanto generosa, anche se contratta in un’espressione imbronciata. «La gara è finita in fondo alla collina, Iselle. Hai barato», protestò.

La giovane donna rivolse al fratello uno sguardo di finta commiserazione. Poi, prima ancora che l’agitato stalliere potesse posizionare i gradini per aiutarla a smontare, scese di sella, rimbalzando sui piedi calzati di stivali.

Anche la giovane bruna anticipò lo stalliere e, una volta a terra, gli consegnò le redini. «Fa’ camminare queste povere bestie finché non si saranno raffreddate, Demi», disse. «Le abbiamo maltrattate in maniera orribile.» Quasi a smentire quelle parole, depose un bacio sulla macchia bianca che spiccava sul muso della cavalcatura e, non appena l’animale le assestò una lieve spinta, con la sicurezza nata dall’abitudine, lei gli diede un boccone prelevato da una tasca.

Ultima a varcare il portone, con un paio di minuti di ritardo rispetto ai giovani, fu una donna più anziana, dal volto arrossato. «Iselle, Betriz, rallentate! Nel nome della Madre e della Figlia, voi ragazze non potete galoppare per tutta la campagna di Valenda come un paio di folli scatenate!»

«Abbiamo rallentato… Anzi ci siamo fermate», replicò la ragazza bruna, con logica incontrovertibile. «Per quanto ci proviamo, brava donna, non possiamo sfuggire alla vostra lingua. È troppo veloce, anche per il cavallo più rapido di tutta la Baocia.»