Con una smorfia di esasperazione, la dama anziana attese che lo stalliere posizionasse i gradini per smontare di sella. «Vostra nonna vi ha comprato quell’adorabile mulo bianco, Royesse Iselle, quindi perché non lo montate mai? Sarebbe una cavalcatura molto più adatta a voi.»
«E molto più lenta», ribatté la ragazza dai capelli color ambra, ridendo. «In ogni caso, il povero Fiocco di Neve è stato lavato e preparato per la processione di domani: se lo avessi portato fuori, costringendolo a correre nel fango, agli stallieri sarebbe venuto il crepacuore. A quanto pare, hanno intenzione di tenerlo al sicuro e al pulito per tutta la notte.»
Ansimando, l’anziana dama permise allo stalliere di aiutarla a scendere di sella e, una volta a terra, scosse le gambe avvolte nella gonna pantalone e si stiracchiò la schiena dolorante. Quando il ragazzo si fu allontanato, circondato da uno stuolo di servitori ansiosi, le due giovani donne, per nulla intimorite dalla continua pioggia di rimproveri della loro dama di compagnia, si misero a correre, gareggiando verso la rocca principale. All’anziana dama non rimase che seguirle a passo più lento, scuotendo il capo.
Nel momento in cui le ragazze si avvicinavano alla porta, sulla soglia apparve un uomo robusto, di mezz’età, vestito sobriamente di lana nera, che le apostrofò con voce pacata ma decisa. «Betriz, se farai di nuovo galoppare il tuo cavallo su per la collina in quel modo, te lo toglierò, così potrai usare le tue energie in eccesso per correre dietro alla Royesse a piedi.»
«Sì, padre», mormorò la brunetta, in tono intimidito, accennando una riverenza.
Accanto a lei, la ragazza dai capelli color ambra si fermò immediatamente. «Per favore, Ser dy Ferrej, perdonate Betriz. La colpa è stata mia, e lei non ha avuto altra scelta se non quella di seguirmi.»
«In tal caso, Royesse», ribatté l’uomo, inchinandosi con aria aggrondata, «forse dovreste chiedervi quale onore può mai avere un capitano che conduce i suoi seguaci verso la colpa, ben sapendo di poter sfuggire a qualsiasi punizione.»
La ragazza dai capelli ambrati contrasse leggermente le labbra, scoccò al suo interlocutore una lunga occhiata in tralice e accennò una riverenza. Le due giovani superarono la soglia, sottraendosi a ulteriori rimproveri. Rimasto solo, l’uomo esalò un lungo sospiro e la dama di compagnia, che stava ancora arrancando sulla scia delle due ragazze, gli rivolse un cenno di ringraziamento.
Anche senza quelle frasi rivelatrici, Cazaril non avrebbe avuto difficoltà a identificare in quell’uomo il siniscalco del castello: lo rivelavano le chiavi tintinnanti, appese alla cintura tempestata d’argento, e la catena, simbolo della sua carica, che gli pendeva dal collo. Quando dy Ferrej gli si avvicinò, si affrettò quindi ad alzarsi e poi a inchinarsi, un gesto troncato a mezzo dalle cicatrici che gli tormentavano la schiena. «Ser dy Ferrej, mi chiamo Lupe dy Cazaril», si presentò. «Imploro la Provincara di concedermi udienza, se… così le aggrada», concluse, con la voce che gli si spegneva in gola di fronte all’espressione corrucciata del siniscalco.
«Io non vi conosco, signore», obiettò dy Ferrej.
«Per grazia degli Dei, è possibile che la Provincara si ricordi di me. Un tempo, sono stato un paggio, qui in questa casa, all’epoca in cui il vecchio Provincar era ancora vivo», spiegò Cazaril, abbracciando il cortile con un gesto della mano. Quella era la cosa più vicina a una casa che avesse mai lasciato, ed era terribilmente stanco di essere uno straniero ovunque andasse.
«Domanderò alla Provincara se intende ricevervi», annuì dy Ferrej, inarcando le sopracciglia grigie.
«È tutto quello che chiedo», replicò Cazaril. Era tutto quello che osava chiedere. Accasciatosi di nuovo a sedere sulla panca, intrecciò le dita e rimase a guardare il siniscalco che tornava verso la rocca principale.
Dopo molti, angosciosi minuti di attesa permeata di tensione, durante i quali era stato fissato in tralice da tutti i servitori di passaggio, Cazaril sollevò lo sguardo e vide il siniscalco che si avvicinava, adocchiandolo con aria perplessa.
«Sua Grazia la Provincara acconsente a ricevervi», disse soltanto. «Seguitemi.»
Essendo rimasto seduto nell’aria sempre più fredda della sera, Cazaril si era irrigidito e incespicò leggermente nel muoversi, maledicendo la propria goffaggine mentre seguiva il siniscalco. Ma non aveva bisogno di una guida. La disposizione degli ambienti gli tornò subito alla memoria, affiorando a ogni svolta. Attraversarono l’atrio, con le sue piastrelle blu e gialle, salirono le scale, oltrepassarono una camera imbiancata a calce e raggiunsero la stanza esposta a ovest che la Provincara aveva sempre preferito in quel momento della giornata, dato che offriva la luce migliore alle sue cucitrici o a lei stessa, se voleva leggere qualche libro. Cazaril dovette chinarsi un poco nell’oltrepassare la bassa porta d’ingresso, cosa che non aveva fatto in passato. Questo è l’unico cambiamento, pensò. Ma non è la porta a essere cambiata…
«Ecco l’uomo che Vostra Grazia stava aspettando», annunciò il siniscalco in tono neutro, a dimostrare che non intendeva né avvallare né confutare le credenziali da lui offerte.
La Provincara era seduta su un ampio seggio di legno, coperto di cuscini per rispetto alle sue ossa anziane, e indossava un sobrio abito verde scuro, adatto a una vedova di alto rango, cui si era però rifiutata di abbinare la cuffia vedovile, scegliendo invece d’intrecciare i lunghi capelli grigi intorno alla testa in due nodi, adorni di nastri verdi e trattenuti da fermagli ingioiellati. Al suo fianco era seduta una dama di compagnia, anziana quasi quanto lei e anch’ella vedova, a giudicare dall’abbigliamento, tipico di una Devota laica del Tempio. La dama stringeva fra le mani un lavoro di ricamo, fissando Cazaril con aria accigliata e piena di diffidenza.
Pregando che il suo corpo non lo tradisse proprio in quel momento, facendolo incespicare o barcollare, Cazaril posò al suolo un ginocchio davanti al seggio, chinando il capo in segno di rispetto. Avvertì il sentore di lavanda e di età avanzata che emanava dalla Provincara. Poi tornò a sollevare la testa e scrutò il volto della donna, alla ricerca di qualche segno che gli facesse capire di essere stato riconosciuto. In caso contrario, sarebbe stato davvero un vagabondo senza patria.
La Provincara incontrò il suo sguardo e si morse un labbro, assumendo un’aria meravigliata. «Per i cinque Dei, siete davvero voi! Mio signore dy Cazaril, siete il benvenuto nella mia casa», mormorò, offrendogli la mano da baciare.
Deglutendo a fatica, quasi annaspando, Cazaril chinò il capo su quella mano, un tempo bianca e fine, con le unghie perfette, e adesso invece chiazzata di marrone e dalle nocche gonfie. Le unghie tuttavia erano ben curate, come se la Provincara fosse stata ancora nel fiore degli anni. La donna non reagì in nessun modo, neppure con un minimo sussulto, quando un paio di lacrime, che lui non era riuscito a trattenere, le caddero sul dorso della mano, ma un angolo della sua bocca s’incurvò in un accenno di sorriso; poi la mano si sfilò dalla sua stretta e si sollevò a sfiorargli la barba, seguendo una delle strisce grigie che l’attraversavano.
«Povera me… Sono dunque così invecchiata?» domandò.
Deciso a non mettersi a piangere come un bambino, Cazaril sbatté rapidamente le palpebre poi alzò lo sguardo. «È passato molto tempo, Vostra Grazia…» rispose.
La mano di lei si girò, e le dita ossute gli batterono leggermente su una guancia. «Vi avevo dato la possibilità di sostenere che non ero minimamente cambiata. Non vi ho forse insegnato come mentire a una dama? Non mi pareva di essere stata così trascurata nell’educarvi!» Con assoluta compostezza, la Provincara ritrasse la mano e rivolse un cenno alla dama di compagnia, aggiungendo: «Lasciate che vi presenti mia cugina, Lady dy Hueltar. Tessa, ti presento il Castillar dy Cazaril».