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— Molto bene — dichiarò Elszabet. — Qui si comincia ad arrivare a un accordo. C’è qualcun altro, adesso, che vuol dire qualcosa su questa faccenda dei sogni spaziali?

A quanto pareva, nessuno intendeva farlo. Elszabet fece passare due volte il suo sguardo tutt’intorno al tavolo, e incontrò il silenzio su ogni lato. Il colloquio si spostò su altre faccende molto più banali riguardanti il Centro. Ma più tardi, quando tutti si congedarono, Naresh Patel rimase seduto. L’azzimato esperto di neurolinguistica, piccolo e dalle ossa sottili, di solito sereno fino al limite dell’impassibilità, pareva stranamente turbato.

— Vuoi parlarmi, Naresh? — gli chiese Elszabet.

— Sì, per favore. Solo per un momento.

— Procedi pure. — Elszabet si sfregò la mascella. Cominciava decisamente a gonfiarsi, là dove Nick Doppio Arcobaleno l’aveva colpita.

Patel disse con la voce più morbida possibile: — È una cosa che non volevo dire durante la riunione generale, anche se, forse, sarebbe stata utile. Ma è una cosa che non sono pronto a condividere con tutti i miei colleghi, e specialmente con il dottor Waldstein nel suo attuale stato mentale. Ma con il tuo permesso, vorrei condividerla con te, soltanto con te.

Non l’aveva mai visto così turbato. Con voce gentile, disse: — Puoi contare sulla mia discrezione, Naresh.

L’ometto esibì un pallido sorriso. — Molto bene, si tratta soltanto di questo, dottoressa Lewis. Anch’io ho fatto quello che il dottor Robinson chiama il Sogno del Mondo Verde. Due notti orsono. Un cielo come un pesante sipario verde. Esseri cristallini d’ineffabile grazia e bellezza. — Le rivolse un’occhiata addolorata. — Io non faccio parte della cospirazione sulla quale insiste il dottor Waldstein. Possiamo accettare la verità di quella dichiarazione. Io non sono in lega con i pazienti per sconvolgere l’equilibrio del Centro. Per favore, credimi, dottoressa Lewis. E tuttavia, insisto a dirti questo, che ho fatto il Sogno del Mondo Verde. Davvero. Ho fatto il Sogno del Mondo Verde.

2

— Non è molto — disse Jaspin. — Non aspettarti molto. Non è affatto molto.

— D’accordo — replicò la ragazza bionda. — Non ti aspetti molto, vero, in momenti come questi?

Il suo nome era Jill, il suo cognome non gli era rimasto in mente, uno di quei blandi e simpatici cognomi americani, Clark, Walters, Hancock, qualcosa del genere. Avrebbe trovato il modo di farglielo ripetere. Per qualche motivo era rimasta con lui dopo la cerimonia dei tumbondé, tenendogli la testa premuta contro il proprio piccolo seno, mentre lui soffriva di quei bizzarri attacchi isterici, aiutandolo poi a discendere il fianco della collina quando le gambe gli tremavano troppo in quel calore bruciante. E adesso in qualche modo erano arrivati davanti al suo piccolo appartamento sulla University Heighs. A quanto pareva avrebbero passato la notte insieme, o per lo meno la sera. Che diavolo, dopotutto era passato un sacco di tempo. Ma una parte di lui avrebbe desiderato essersela scrollata di dosso laggiù, in campagna. Era la parte in cui risuonavano ancora i tamburi dei tumbondé; era la parte che vedeva ancora la forma titanica di Chungirà-Lui-Verrà, assolutamente e inequivocabilmente reale sul suo trono di alabastro sul pianeta di qualche stella lontana. Avere attorno quella ragazza era soltanto una distrazione, una specie di ronzio quando c’erano cose come quelle che gli pulsavano nell’anima. Comunque, lui non aveva fatto molto per liberarsi di lei, dopo la cerimonia. Che diavolo.

Appoggiò il pollice sulla piastra della porta, la porta gli chiese il suo nome e lui disse: — Il tuo signore e padrone. Per l’inferno, apri e in fretta!

La ragazza scoppiò a ridere: — Hai uno stile molto personale, dottor Jaspin.

— Barry, per favore. Barry: d’accordo? E non ho neppure un dottorato, per quanto possa essere difficile per te accettare questo fatto. — La porta, analizzato il suo profilo vocale e avendolo trovato accettabile, scivolò di lato. Lui fece un gesto maestoso: — Entrez-vous! — Entrarono.

Non l’aveva affatto ingannata: non era molto. Due stanze, cucinino rientrante, un terrazzino rivolto a sud. L’edificio era decente, in stile spagnolo, le pareti imbiancate, un tetto dalle tegole rosse, lussureggianti piante della California che si arrampicavano sopra ogni cosa: bougainvillee purpuree, ibisco rossi e bianchi, grandi mazzi spinosi di aloe, qua e là un’agave, palme sago, tutta la più rigogliosa produzione subtropicale. Era probabile che quel posto fosse stato un piacevole e perfino lussuoso condominio prima della guerra. Ma adesso era diviso in un milione di minuscoli appartamenti, e naturalmente non c’era più nessun servizio di manutenzione, così la proprietà stava decadendo molto in fretta. Ma che diavolo! Era casa sua. Ci era capitato per caso mentre stava girovagando qua e là, il primo giorno che si era trovato a San Diego, dopo aver deciso che doveva assolutamente andarsene da Los Angeles, e ormai cominciava quasi a sentirsi a suo agio là dentro, quattordici mesi più tardi.

— Vivi a San Diego? — le chiese.

La ragazza riuscì a non rispondere. Lui gliel’aveva già chiesto mentre stavano raggiungendo il parcheggio, e anche allora era riuscita a non dargli risposta. Adesso, stava girando per l’alloggio guardando con tanto d’occhi la sua biblioteca: una considerevole risorsa di dati, doveva ammetterlo, cubi e nastri e chip-coacervati e dischi e perfino libri, buoni vecchi libri antichi, ma non ancora obsoleti.

— Ma guarda! — esclamò la ragazza. — Hai qui Kroeber! E Margaret Mead! E Levi-Strauss, e Haverford, e Schapiro, e… tutti! Non avevo mai visto niente di simile, salvo in una biblioteca pubblica! Ti spiace? — Si era messa a tirar giù gli oggetti dagli scaffali, accarezzandoli, coccolandoli, i libri, i nastri, i cubi. Poi si voltò verso di lui. I suoi occhi erano luminosi e ardenti.

Jaspin aveva visto altre volte quell’espressione rapita, sul volto delle ragazze delle sue classi… nei giorni in cui ancora aveva le classi. Era amore puro, amore astratto. Non aveva niente a che fare con lui in particolare, il vero lui; lo adoravano perché lui era la fonte del sapere, perché ogni giorno passeggiava in compagnia di Aristotele e Platone. E anche perché era più vecchio di loro e poteva, se avesse voluto, aprire per loro i cancelli della saggezza con un semplice gesto del suo dito. Jaspin aveva usato il suo dito su un certo numero di loro, e non soltanto il suo dito, e sospettava che alcune se ne fossero venute via più sagge proprio grazie a questo, anche se, forse, non nella maniera che si erano aspettate. Aveva pensato di essersi ormai lasciato alle spalle quelle cose.

— Senti, Jill — avrebbe voluto dire, rivolgendosi a quel volto adorante, — è un vero errore romanticizzarmi in questo modo. Qualunque cosa pensi che io possa offrirti, semplicemente non esiste. Davvero. — Ma non riusciva a indursi a dirlo.

Invece andò verso di lei come se avesse l’intenzione di accoglierla fra le proprie braccia; ma all’ultimo momento si limitò a prenderle di mano il libro che la ragazza stringeva e a coccolarlo come aveva fatto lei. Una vera rarità, Cordry, sulle maschere messicane, centotrent’anni di età e le tavole avevano i colori ancora vividi. Stava un po’ per volta vendendo la sua biblioteca ad un professore del campus di La Jolla per pagarsi da mangiare e l’alloggio, allo stesso modo in cui si era procurato la maggior parte di quella collezione dai dieci ai quindici anni prima, quando era stato lui ad avere i soldi e qualcun altro si era trovato in una situazione d’indigenza.

— È uno dei miei più grandi tesori — dichiarò Jaspin. — Guarda queste maschere! — Girò le pagine. Diaboliche facce cornute, creature da incubo. Chungirà-Lui-Verrà, Maguali-ga. Senti i tamburi che ricominciavano a battergli in testa.