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— E questo. E questo. E questo. — E stava per sprofondare nell’estasi. — Una tale, meravigliosa biblioteca! Che persona sorprendente devi essere, per aver raccolto tutte queste conoscenze, dottor Jaspin!

— Barry.

— Barry.

La ragazza usci fuori sul terrazzino e allungò la mano verso l’ibisco, ne staccò un fiore rosso-vivo e se l’infilò tra i capelli. Soltanto una senzatetto, lui pensò. Una randagia. Probabilmente un po’ più vecchia di quanto aveva immaginato all’inizio… forse ventisette. — Vivi in un bellissimo posto — lei gli disse. — In tempi come questi siamo fortunati, no, di trovarci sulla costa della California? Non è così buona la situazione nell’entroterra, non è vero?

— Dicono che la situazione sia piuttosto brutta da quelle parti. E più ti allontani dalla costa, peggio è. Naturalmente, peggio di tutto sono gli stati ai margini della zona impolverata. A quanto dicono, è una giungla totale: bandido dappertutto e nessuno a cui importi; comunque, muoiono tutti a causa delle radiazioni. — Scosse la testa. Provava la nausea a pensarci… lo sconvolgimento provocato dalla Guerra della Polvere. Niente bombe, no: non una sola bomba era stata sganciata. Non si potevano usare le bombe senza innescare l’olocausto finale che tutti ammettevano avrebbe significato il reciproco annichilimento, così avevano usato invece le nubi a radiazione controllata, colpendo gli stati agricoli, spazzando via l’intero cuore del paese, spezzandolo a metà, o addirittura in tre parti. Come avevamo fatto noi con loro, soltanto peggio. E adesso, trent’anni più tardi, strisciamo in mezzo ai resti della civiltà occidentale, potando le nostre bougainvillee e suonando i nostri cubi musicali e frequentando i corsi di antropologia e fingendo di aver ricostruito il mondo qui fuori al sole della California mentre, per tutto quello che ne sappiamo, la gente è diventata cannibale a sole cinquecento miglia a est di qui. E aggiunse, ad alta voce: — Ecco cosa avevo intenzione di scrivere. Il mondo moderno da un punto di vista antropologico: quasi sociologia, in un certo senso. Il mondo come giungla dell’alta tecnologia. Naturalmente adesso non lo farò più.

— No?

— Ne dubito. Non sono più all’università. Non ho nessuna sponsorizzazione. E la sponsorizzazione è importante.

— Potresti farlo da solo, Barry. So che potresti.

— È molto gentile da parte tua — replicò Jaspin. — Senti, hai fame? Ho un po’ di roba, qui. E le pere spinose che crescono su quel cactus in cortile sono commestibili, così potremmo…

— Ti spiace se faccio una doccia? Mi sento davvero appiccicosa, e ho addosso tutta questa pittura, i marchi di Maguali-ga…

— Ma certamente — lui annuì. — Che giorno è oggi? Venerdì? Sicuro, al venerdì abbiamo l’acqua per la doccia.

In un attimo, lei era uscita dai suoi indumenti. Nessuna vergogna. E neppure nessun seno decente, né fianchi, glutei piatti come quelli di un ragazzino. Che diavolo? Era femmina, comunque. Ne era sicuro, anche se non sapeva sempre dirlo per certo, visto il modo in cui facevano trapianti ed espianti e cose del genere, oggigiorno. Le mostrò il cubicolo della doccia e le trovò un asciugamano. Poi, che diavolo, si spogliò ed entrò con lei. — La quota d’acqua che abbiamo per persona non è molta — spiegò. — Faremo meglio a sfruttarla tutti e due.

Quando furono sotto il getto, lei si voltò verso di lui e gli avvolse le gambe intorno al corpo, e lui la spinse contro la parete piastrellata tenendole le mani sotto il sedere. Tenne gli occhi chiusi per la maggior parte del tempo, ma a un certo punto li aprì e vide che gli occhi di lei erano spalancati e che lei aveva sempre quell’espressione rapita e adorante. Come se lui le mettesse dentro cinquanta enciclopedie ad ogni spinta.

Fu tutto molto rapido, anche se molto soddisfacente. Non c’era modo di evitarla. La soddisfazione per la cosa. Ma poi vennero la tristezza, il senso di colpa, la vergogna. Molto tempo fa, qualcuno l’aveva definito fare all’amore. Quale amore? Dove? Due patetici estranei, che pigiavano insieme alcune parti dei propri corpi per qualche minuto: amore.

Jaspin pensò: devo cercare di essere onesto con questa ragazza. Sarebbe stato più simpatico che avessi cercato d’essere onesto prima che lo facessimo, ma forse, allora, non l’avremmo fatto, e immagino che io volessi farlo davvero troppo. Anche questa è onestà, no? No.

Avvilito, appoggiato, fiacco, sul bordo del lavello, disse, fissando i muscolosi seni sormontati di rosa, i suoi fianchi da ragazzino, i suoi capelli umidi e filacciosi: — Devo dirtelo con schiettezza. Tu sei convinta che io sia una specie di figura nobile e romantica, vero? Bene, non lo sono affatto, d’accordo? Non sono nessuno. Sono un fasullo. Sono un fallito, Jill.

— Anch’io — disse lei.

Lui la guardò, sorpreso. Era la prima cosa autentica che aveva sentito uscire dalla sua bocca da quando l’aveva incontrata. Poi spiegò: — Una volta ero qualcuno. Un ragazzo intelligente, di una famiglia ricca di Los Angeles, un mucchio di prospettive. Sarei diventato uno dei grandi antropologi, ma in qualche punto della strada sono diventato un farblondjet. - Lei lo fissò sconcertata. — Non conosci la parola? È yiddish. Significa confuso, disorientato, completamente sbalestrato. Il cafard dell’anima, la grande malattia spuntata agli albori del ventiduesimo secolo, quella che adesso chiamano, credo, la sindrome di Gelbard. Andai in pezzi, ecco quello che mi successe. E non ne sapevo neppure il perché. Mi divenne troppo seccante alzarmi la mattina. Mi divenne troppo seccante andare a far lezione. Non ero esattamente depresso, capisci… La sindrome di Gelbard è qualcosa di un po’ diverso dalla depressione clinica. Mi dicono che è una cosa più profonda, è una reazione a tutto il casino fatto dall’umanità, una specie di esaurimento culturale, un fenomeno di estinzione, come se ti venisse a mancare il combustibile… ma ero farblondjet. E lo sono ancora. Non ho carriera, non ho futuro. Non sono l’eroico semidio della cultura che probabilmente tu immagini.

— Ho assistito ad uno dei tuoi corsi. Eri molto profondo.

— Ripetevo la roba che ho trovato in questi libri. Cosa c’è di profondo in una lingua sciolta? Cosa mai c’è di profondo in una buona memoria? Ti sono parso profondo perché non conoscevi niente di meglio. Comunque, che specializzazione hai conseguito alla UCLA?

— Nessuna.

— Nessun diploma.

Una scrollata di spalle. — Volevo imparare tutto, ma c’erano tante di quelle cose che non sapevo da dove cominciare. Così, credo di non aver mai cominciato. Ma adesso avrò una seconda possibilità, no?

— Cosa vuoi dire?

La sua voce aveva assunto una strana punta di vivacità, qualcosa come dei sottili fili di rame sfregati insieme. — D’imparare. Da te. Farò le pulizie, la spesa, qualunque cosa, tutti i lavori. E studieremo insieme. Va bene, no? Ti aiuterò a scrivere il tuo libro. Non ho un posto vero e proprio in cui vivere, in questo momento, sai. Ma non occupo troppo spazio, e sono molto ordinata, e…

Fu sorpreso di non essersi accorto che stava per accadere. Cominciò ad avvertire una pulsazione alla fronte. Immaginò che Chungirà-Lui-Verrà avesse allungato un’enorme zampa e l’avesse rinchiusa tutt’intorno alla sua testa, e stesse stringendo, stringendo, stringendo…

— Non ho intenzione di scrivere il libro — dichiarò Jaspin. — E non ho intenzione di rimanere qui a San Diego.

— No?

— No. Non rimarrò qui ancora per molto.

Rimase sorpreso oltremisura da ciò che gli era appena uscito di bocca. La cosa gli giungeva nuova, che lui stesse per lasciare San Diego.

— Dove andrai? — gli chiese lei.

Jaspin aspettò per un po’ che la sua bocca gli fornisse la risposta, e poi si sentì dire: — Andrò dovunque andrà il Senhor Papamacer. Al Settimo Posto, immagino. Seguirò i tumbondé fino al Polo Nord, se sarà necessario.