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Continuò a correre senza dire niente, quasi inconsapevole dell’uomo dalla pelle scura e dai movimenti sciolti che correva al suo fianco. C’era un sentiero ripido e accidentato che dalla cima del dirupo scendeva fino alla spiaggia. In sé, la spiaggia aveva sì e no abbastanza sabbia da poterci stendere sopra tre coperte, fianco a fianco. Durante l’inverno, all’alta marea, non c’era praticamente spiaggia, e se ci si andava, bisognava rannicchiarsi in una caverna scavata dall’oceano, con le onde gelide che finivano per lambirvi le dita dei piedi. Ma quello era un caldo pomeriggio d’estate. Nessuna nebbia. La marea era bassa. Lanciò oltre il dirupo la coperta da spiaggia che aveva portato con sé, e seguendola discese a sua volta, aiutandosi con le mani. Robinson la seguì dappresso, affrontando il sentiero con grandi balzi sicuri.

Quand’ebbero raggiunto la spiaggia, lei annunciò: — Adesso mi toglierò i vestiti. Qui di solito lo faccio sempre. — Lo fissò negli occhi… Un’occhiata che diceva: «Niente equivoci, non sto cercando di provocarti». E diceva anche: tu sei qui, d’accordo, ma in realtà vorrei che tu non ci fossi, e mi comporterò come se fossi qui da sola.

Lui parve capire. — Sicuro — replicò. — Per me va benissimo. — Si sfilò la camicia buttandola da parte, tenne addosso i jeans, si accovacciò accanto alle pozze create dalla marea all’estremità più alta della spiaggia. — Ci sono un paio di stelle marine qui — annunciò.

Elszabet annuì vagamente. Slacciò il reggipetto, lasciò cadere i calzoncini e s’incamminò, nuda, verso il bordo dell’acqua, senza guardare verso di lui. Piccole onde gelide turbinarono intorno alle dita dei suoi piedi.

— Hai intenzione di entrare? — le chiese Robinson.

Elszabet scoppiò a ridere. — Tu pensi che sia matta?

Lei non andava mai a nuotare in quel posto. Non lo faceva nessuno, inverno o estate che fosse. L’acqua, lì, era gelida come la morte per tutto il tempo dell’anno, come lo era lungo tutta la costa del Pacifico a nord di Santa Cruz, e una scura barriera corallina appena al largo rendeva la risacca turbolenta e invalicabile. Ciò andava benissimo a Elszabet. Se avesse avuto voglia di nuotare, c’era una piscina al Centro. La spiaggia significava altre cose per lei.

Dopo un po’ diede un’occhiata dietro di sé in direzione di Robinson e vide che lui la stava guardando. Sorrise e non distolse lo sguardo in fretta da lei, come se il farlo fosse stata un’ammissione di colpevolezza. Invece, tenne lo sguardo fisso su di lei per uno o due istanti ancora, poi riportò la sua attenzione, in maniera deliberata, sulle stelle marine. Forse non è poi tanto una buona idea, pensò Elszabet. Il nudismo non era una gran cosa al Centro, ma qui c’erano soltanto loro due. E lei sapeva che Robinson aveva dell’interesse nei suoi confronti, anche se non si era mai espresso apertamente. Dopotutto lei era una donna attraente, e lui un uomo sano ed estroverso, e c’erano legami intellettuali e professionali. Erano una coppia plausibile; al Centro lo pensavano tutti. A volte lo pensava anche lei. Ma non voleva nessuna complicazione romantica, né con D. n Robinson, né con nessun altro. Per lei, quello non era il momento per quel genere di cose. Si chiese se non avesse voluto per davvero essere provocante. Oppure stuzzichevolmente crudele. Sperava di no.

Decise di non preoccuparsene. Cautamente prese ad avanzare finché l’acqua non le arrivò alle caviglie. Il gelo la spinse a emettere un sibilo, ma parve purgarla dal palpito che avvertiva alle tempie.

Robinson riprese, sempre frugando nelle pozze d’acqua lasciate dalla marea: — Ho pensato ai sogni. Ad una spiegazione possibile. Che potrebbe sembrarti bizzarra, forse, ma lo sembra assai meno a me, piuttosto che arzigogolare sul fatto che un sacco di gente sta avendo gli stessi identici sogni bizzarri per pura coincidenza.

In quel momento, Elszabet non aveva molta voglia di discutere il problema dei sogni, o qualunque altra cosa. Ma disse ugualmente, con sufficiente cortesia: — Qual è la tua teoria?

— Che stiamo ricevendo una specie di trasmissione da un vascello spaziale in avvicinamento.

— Cosa?

— Ti sembra pazzesco?

— Un po’ tirato per i capelli, diciamo.

— Lo direi anch’io. Ma io ho una logica da proporre a sostegno. Sai cos’era il Progetto Sonda Stellare?

Elszabet cominciava a sentirsi impacciata, là in piedi, nuda, mezza voltata verso di lui con i piedi nell’aria gelida. Risalì un poco verso la spiaggia, non fino alla sua coperta, e si sedette sulla sabbia con la schiena appoggiata a una sporgenza rocciosa e le ginocchia tirate su contro il petto. Il sole caldo sulla pelle le faceva provare una sensazione piacevole. Non si reinfilò gli indumenti ma, seduta lì, si sentiva un po’ esposta. Le pareva che il mal di testa fosse sul punto di tornarle. Soltanto un piccolissimo pizzicore attraverso la fronte. — Il Progetto Sonda Stellare? — disse. — Aspetta un secondo. Quella era una specie di spedizione spaziale automatica, non è vero?

— Diretta a Proxima Centauri, si. Il sistema stellare più vicino alla Terra. È stata lanciata poco prima della Guerra della Polvere… oh, attorno al 2050, 2060. Potrei controllare. L’idea era quella di arrivare nelle vicinanze di Proxima Centauri, in venti, trenta, quarant’anni, per porsi in orbita di sorveglianza, cercare dei pianeti, scattare delle fotografie e ritrasmetterle…

Di nuovo il mal di testa. Sì, decisamente.

— Non vedo come questo abbia a che fare con…

— Rifletti un po’ — l’interruppe Robinson. — Non ho controllato, ma immagino che la Sonda Stellare abbia raggiunto Proxima Centauri dieci o quindici anni fa. Si trova a circa quattro anni-luce di distanza da noi, e credo che la nave dovesse raggiungere una accelerazione piuttosto forte dopo un po’, la sua massima velocità pari a un quarto circa di quella della luce, e… comunque, diciamo che la Sonda è arrivata a destinazione. E che Proxima Centauri abbia delle forme di vita intelligenti che vivono su uno dei suoi pianeti. Questi se ne escono a bordo delle loro piccole navi spaziali e ispezionano la sonda, stabiliscono che proviene dalla Terra ed è piena di apparecchiature per lo spionaggio, e questo in qualche modo li innervosisce. Così, smontano la sonda, potrebbe esser questo il motivo per cui non abbiamo ricevuto indietro nessun messaggio, e poi mandano fuori una loro spedizione per scoprire com’è questo posto, la Terra, se è pericoloso per loro e così via.

— E questa missione di controspionaggio annuncia il suo arrivo bombardando la Terra con allucinazioni aleatorie di altri mondi? — chiese Elszabet. Dan era un uomo molto dolce, ma desiderò che la lasciasse sola per un po’. — Non mi sembra molto plausibile. — Chiuse gli occhi e alzò il viso in direzione del sole, e pregò che lui lasciasse cadere quella discussione.

Ma lui parve non aver afferrato l’allusione. Insisté: — Be’, forse non vengono per spiarci, o per invaderci. Diciamo che vengono soltanto come ambasciatori.

Per favore, pensò lei. Fa’ che la smetta… che la smetta.

— E in qualche modo, emettono emanazioni telepatiche (sono alieni, ricordi, non possiamo affatto sapere come funzionano i loro processi mentali), emanazioni telepatiche che destano immagini di lontani sistemi stellari nella mente di chi è più suscettibile a recepirle. — Non c’era modo di fermarlo, vero? Elszabet aprì gli occhi e lo fissò, ancora troppo cortese per intimargli di andarsene. Il tambureggiare nella sua testa stava aumentando. Prima le aveva dato l’impressione di qualcosa che cercasse di uscire. Adesso le dava l’impressione di qualcosa che cercasse di entrare. — O forse l’invio delle immagini è la loro maniera per ammorbidirci, spargendo confusione, paura, panico, per poi conquistarci — proseguì Robinson. — Sì. No: non ti piace ancora, vero? Be’, d’accordo, sono soltanto ipotesi, non faccio niente di più. Anche a me sembra una sciocchezza, ma non è al di fuori di ogni possibilità. Prosegui pure. Dimmi cosa ne pensi.