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Robinson le sorrideva come un sedicenne imbarazzato. Era chiaro che voleva una qualche forma di assicurazione da parte di lei, voleva sentirsi dire che la sua ipotesi non era del tutto inverosimile. Ma non poteva rassicurarlo come lui avrebbe voluto. D’un tratto non le importava più delle sue idee, di lui, di qualsiasi cosa, di nient’altro se non di quella stilettata d’incredibile dolore che era eruttata fuori tra i suoi occhi.

— Elszabet?

Lei si alzò in piedi barcollando, ondeggiò, quasi ruzzolò in avanti. Ogni cosa le pareva verde e confusa. Le pareva che una spessa benda di lana verde le fosse stata stretta intorno alla fronte. E la lana stava tentando d’introdursi nella sua mente, lanosi viticci verdi simili ad una fitta nebbia, che invadevano la sua coscienza…

— Dan! Cosa mai sta succedendo? Io… io non so, Dan!

Ma lo sapeva. È il Mondo Verde, disse a se stessa. Che sta cercando d’irrompere nella mia mente. Un sogno ad occhi aperti, una folle allucinazione. Poteva trattarsi di questo? Del Mondo Verde?

Sto impazzendo? pensò.

Rantolando, singhiozzando, avanzò incespicando giù per l’angusta spiaggetta ed entrò nell’acqua. Questa s’innalzò intorno a lei come ghiaccio, come fiamma, fino alle sue cosce, fino al petto. Cercò di spinger via la cosa che le stava strisciando dentro la mente. Si raschiò con le unghie la capigliatura e la pelle del cranio, come se potesse grattarla via. Poi andò a sbattere contro una roccia sommersa, scivolò, cadde sulle ginocchia. Un’onda le schiaffeggiò il viso. Stava gelando. Stava affogando. Stava impazzendo.

E poi, cessò con la stessa rapidità con cui era cominciato.

Era in piedi, con l’acqua che le arrivava ai polpacci, tremante. Dan Robinson era accanto a lei. Le aveva passato il braccio intorno alla spalla e la stava guidando verso la spiaggia, sospingendola su per la striscia di sabbia, avvolgendole la coperta intorno al corpo. Aveva la pelle d’oca dalla testa ai piedi, e il freddo intenso le aveva sollevato e gonfiato i capezzoli, facendoli diventare così duri che le guance le si infiammarono quando li vide. Voltò le spalle a Dan. — Porgimi i vestiti — gli disse, cercando a tastoni il suo reggipetto.

— Cos’è stato? Cos’è successo?

— Non lo so — mormorò lei. — Qualcosa mi ha colpito tutt’a un tratto, una sorta di allucinazione. Non so. Qualcosa di bizzarro per un secondo o due, e sono svenuta, credo. — Non voleva dirgli della verde nebbia lanosa. Già l’idea che si fosse trattato di un’immagine del Mondo Verde che aveva cercato di penetrare nella sua coscienza le sembrava assurda, una sciocca fantasticheria orrorifica. E anche se era accaduto, non osava confessarlo a Dan Robinson. Certo, lui si sarebbe mostrato comprensivo. Sarebbe stato perfino invidioso. Ripensò a come, soltanto mezz’ora prima, aveva dichiarato quanto gli dispiacesse di non essere mai stato tanto fortunato da fare uno dei sogni spaziali. Ma la sua prospettiva su questa faccenda era del tutto diversa. Per la prima volta i sogni la spaventavano. Che li facesse pure Padre Christie; che li facesse pure April Cranshaw; che li facesse pure Nick Doppio Arcobaleno. Si trattava d’individui emotivamente instabili: per loro, le allucinazioni erano all’ordine del giorno. Che li facesse pure anche Dan, se lo desiderava. Ma non io. Per favore, Dio, non io.

Adesso si era rivestita. Ma era ancora gelata fino alle ossa da quel tuffo nel Pacifico. Robinson si trovava a cinque o sei metri di distanza. La fissava, e faceva del suo meglio per non mostrarsi troppo preoccupato per lei. Elszabet si costrinse a sorridere. — Forse ho bisogno di una vacanza — disse. — Mi spiace di averti scombussolato.

— Ti senti bene, adesso?

— Sto bene. È stata soltanto una cosa molto rapida. Non so. Càspita, se è fredda quell’acqua!

— Possiamo tornare al Centro?

— Sì. Per favore, sì.

Dan le offrì una mano per aiutarla ad arrampicarsi su per il dirupo. Elszabet lo respinse con rabbia e salì il sentiero come una capra di montagna. Giunta in cima si fermò solo per un istante per risistemarsi la coperta intorno alla cintura, poi si allontanò senza aspettarlo, mettendosi a correre a una velocità da sprint lungo la strada in direzione del Centro.

— Ehi, arrivo! — gridò lui, ma lei rifiutò di rallentare e senza nessuna misericordia verso se stessa continuò a correre spingendosi al limite delle proprie forze. Non avrebbe permesso che lui la raggiungesse. Quando arrivò al Centro si sentiva stordita e col fiato mozzo, ma era arrivata con cento metri di vantaggio su di lui.

Non rallentò finché non ebbe raggiunto il suo ufficio. Una volta dentro, sbatté la porta alle proprie spalle, cadde sulle ginocchia e rimase lì rannicchiata sul pavimento, tremando, fino a quando non fu sicura che non avrebbe vomitato. Gradualmente il cuore smise di martellarle e il respiro tornò normale. Cose terribili stavano accadendo ai muscoli delle sue cosce. Sollevò lo sguardo sulla sua dati-parete. Diceva che c’era un messaggio per lei. Lo chiamò: Grazie per le informazioni. La nostra lista di sogni è esattamente la stessa; seguirà un’analisi dettagliata. Voci di sogni analoghi sono giunte dal sud, da zone lontane come San Diego. Sto controllando. Ulteriori informazioni più avanti. Cosa sta succedendo, in nome di Dio? Era firmato: Paolucci, San Francisco.

TRE

Con un pensiero che scambiai per sentimentale e una scodella di frutti di mare, con una cosa tanto eccezionale, che il cielo vi benedica tutti, mi sono rimbambito. Non ho dormito fin dai tempi della Conquista, e neppure mi sono mai svegliato, fino a quando quel furfantesco amorino mi trovò là dove giacevo, e mi denudò.
Mentre io canto «Un po’ di cibo, qualcosa da mangiare, da mangiare, da bere o da vestire. Vieni, dama o fanciulla, non aver timore, il povero Tom non farà male a nessuno».
Canto di Tom o’ Bedlam

1

Il furgone rosso e giallo a effetto-suolo stava fluttuando verso occidente, sempre più verso occidente. I grattatori non avevano voluto restare nella valle di San Joaquin dopo le uccisioni alla fattoria vicina alla biforcazione del fiume. Così avevano deciso, appunto, di proseguire verso occidente, su un carro d’aria, aleggiando un po’ al di sopra del fondo stradale dell’August. Tom si sentiva come un re, a viaggiare così. Salomone che avanzava con maestoso incedere.

L’avevano lasciato sedere davanti accanto al conducente. Charley guidava per qualche tratto, e Buffalo, e a volte quello chiamato Nicholas, il quale aveva un volto liscio da ragazzo e capelli completamente bianchi, e che se ne stava quasi sempre zitto. Di tanto in tanto guidavano anche Mujer, o Stidge, Tamale non guidava mai, e neppure lui, Tom. Comunque, per la maggior parte del tempo il guidatore era Rupe, nerboruto, le spalle ampie e il viso rosso. Se ne stava seduto, lì, per ore e ore, stringendo la sbarra. Quando Rupe guidava il furgone, questo non deviava mai, neppure d’un pelo, dal rettifilo della strada. Ma a Rupe non piaceva che Tom si mettesse a cantare quando lui guidava. A Charley invece sì: gli chiedeva sempre nuove canzoni durante i suoi turni. — Tira fuori quella tua vecchia tastiera, amico — gli diceva Charley, e Tom si metteva a frugare nello zaino. Aveva ricevuto il dita-piano giù vicino a San Diego tre anni prima, da uno dei profughi africani che si trovavano da quelle parti. Era soltanto una tavoletta cava con delle piastrine metalliche appoggiate sopra, ma Tom aveva imparato a farlo suonar bene come una chitarra: intonava le melodie palpeggiando le piastrine con i pollici. Conosceva le parole di un bel po’ di canzoni. Di molte canzoni non conosceva la musica, ma ormai aveva fatto abbastanza pratica così da potersi inventare delle melodie adatte alle parole. La sua voce era quella limpida d’un tenore. Alla gente piaceva ascoltarla, a tutti fuorché a Rupe. Ma questo era giusto. Non doveva disturbare Rupe mentre guidava.