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Charley disse: — Tu continua a guidare, Mujer. Non fermarti per nessun motivo. E non dire niente.

— Gli zygerone del Quinto Mondo sono i più importanti, i padroni. Li riuscite a vedere adesso, no, mentre escono dai loro carri? Hanno teste come soli, e braccia che spuntano tutt’intorno alle loro cinture, una dozzina e mezza di braccia, come fruste… sì, quelli sono loro. Sono giunti a questa stella millecento milioni di anni fa, all’epoca della signoria dei veltish, quando il loro vecchio sole cominciò a sbuffare e a diventare rosso e gigantesco. Il loro vecchio sole divorò i suoi mondi uno ad uno, ma ormai gli zygerone se n’erano andati sul loro nuovo pianeta. Il Quinto Mondo è il più grande, ma tutt’insieme raggiungono il numero di diciannove. Gli zygerone sono i signori dei poro, sapete, il che è stupefacente, se ci pensate, poiché i poro sono così grandi che, se uno dei loro servi più piccoli venisse sulla Terra, uno dei loro più infimi convincolati, sarebbe un re al nostro confronto. Ma per gli zygerone i poro non sono niente. Eppure, esiste anche una razza che signoreggia sopra gli zygerone. Ve l’ho detto, non è vero? Sono i kusereen, i quali dominano intere galassie, dozzine di galassie, centinaia, l’autentico Impero. — Tom scoppiò a ridere. Aveva spinto indietro la testa, chiuso strettamente gli occhi. — Tu pensi, Charley, che i kusereen s’inchinino anch’essi a un signore? E così via, sempre più in alto? A volte penso che esista una galassia lontanissima dove regnano ancora i re dei theluvara, e ogni mezzo miliardo d’anni il signore dei kusereen si presenta davanti a loro e piega il ginocchio davanti al loro trono. Soltanto che i kusereen, in realtà, non hanno ginocchia. Sono come fiumi, ognuno d’essi come un fiume risplendente che si tiene insieme come un nastro di ghiaccio. Ma d’altronde, chi sono i re ai quali i re dei theluvara offrono obbedienza? E c’è anche un Dio maestoso, alla sommità della creazione, trionfante su tutte le cose vive e morte e che ancora non esistono. Non scordatevi di Lui.

— Hai mai sentito qualcuno di più matto? — chiese Stidge. — Ecco com’è un matto, un matto vero.

— Mi piace più delle sue canzoni — dichiarò Mujer. — Le canzoni mi fanno male. Con questa roba, invece, è come guardare uno spettacolo laser, con la differenza che sono parole. Ma lui dice che è davvero una bella cosa, no?

— Lo vede come se per lui fosse vero… già — annuì Buffalo.

Charley intervenne: — Lo vede in quel modo perché è vero.

— Ti ho sentito giusto, uomo? — chiese Mujer.

— Mi hai sentito giusto, già. Lui vede dei mondi. Guarda fuori in mezzo alle stelle. Legge il Libro dei Soli e il Libro delle Lune.

— Ehi, ehi! — esclamò Stidge. — Ehi, ascoltate Charley, adesso!

— Chiudi il tuo buco — lo rimbeccò Charley. — So quello che sto dicendo, Stidge. Chiudilo, o farai il resto della tua strada a piedi fino a Frisco, uomo.

— Frisco — disse Buffalo. — Non è molto lontana, ormai. Gente, me la spasserò un mondo a Frisco!

Charley disse ancora, parlando con voce sommessa, rivolto a Tom: — Tu non badarci, Tom. Continua a raccontarci quello che vedi.

Ma era finito. Adesso Tom vedeva soltanto la strada per San Francisco, quasi nessun traffico, il calore che faceva tremolare il fondo stradale e grosse sfere di soffioni che rotolavano in mezzo all’autostrada andando a fermarsi contro il vecchio reticolato di filo spinato. Il Quinto Mondo degli zygerone era scomparso. Non aveva importanza. Sarebbe tornato, quello, o uno degli altri. Lui non aveva nessun timore che non accadesse più. Quella era una delle cose di cui non aveva timore, che le visioni potessero tutt’a un tratto abbandonarlo. Ciò che temeva, era che quando fosse venuto il momento, per i popoli della Terra, di abbracciare i mondi dell’Impero, lui sarebbe stato lasciato indietro, perché incapace di compiere la Traversata. C’era una profezia, in proposito. Era una vecchia storia, no? Mosé, il quale era morto all’ingresso della Terra Promessa. Ho fatto in modo che tu la vedessi con i tuoi occhi, ma tu non ci arriverai, aveva detto il Signore. Le lacrime cominciarono a scorrere giù per le guance di Tom. Se ne restò seduto là, in silenzio, piangendo, guardando la strada snodarsi davanti a loro. Il furgone continuava ad avanzare in silenzio verso San Francisco, galleggiando, galleggiando, avanti… avanti.

— San Francisco, quarantacinque minuti — annunciò Buffalo. — Mio o mio o mio!

2

L’uomo dei tumbondé disse: — Tu aspetta qui. Ti chiamerò quando il Senhor Papamacer sarà pronto a parlarti. Non uscire da questa stanza, hai capito?

Jaspin annuì.

— Hai capito? — ripeté l’uomo dei tumbondé.

— Sì — disse Jaspin, con voce roca. — Ho capito. Aspetterò qui fino a quando il Senhor Papamacer non sarà pronto per me.

Non riusciva a convincersi che quel posto esistesse davvero. Era una baracca, niente più, quattro o cinque stanze diroccate, fatiscenti; era il genere di roba che ci si sarebbe aspettati di trovare a Tijuana, soltanto che Tijuana, dopo cinquant’anni, non era ancora ridotta in quelle condizioni. Quello, il quartier generale di un culto che contava migliaia di fedeli… che registrava nuove conversioni a migliaia, ogni giorno. Quella baracca.

L’edificio si trovava all’angolo sud-est di National City, in qualche punto vicino a Chula Vista, sulla cima sabbiosa, bassa e piatta, d’una collina dietro la vecchia autostrada. Pareva vecchio di duecento anni e probabilmente risaliva al massimo alla prima parte del ventesimo secolo, rattoppato e riparato mille volte… non aveva la minima traccia di modernità. Niente schermo di protezione, niente finestre a diffusione di calore, niente antenna sul tetto, neppure i soliti controlli della ionizzazione che tutti avevano, i totem che, si pensava, tenessero lontana qualunque raffica di radiazioni dure che potesse venir soffiata da est. Da quanto Jaspin poteva vedere, quel posto non aveva neppure l’elettricità, niente telefono, e forse neppure i tubi dell’acquedotto. Non si era aspettato niente di così remotamente primitivo. — Uomo — gli avevano detto, — tienti pronto per oggi. Potrai venire ad ascoltare la parola che il Senhor Papamacer ha per te. Verremo noi a prenderti, uomo, per portarti alla casa del dio. — Quella? La casa di Dio? Non ce n’era il più piccolo segno. Guardando dal davanti, non era visibile nessuna delle iconografie dei tumbondé. Soltanto quando si salivano i gradini di legno, crepati e coperti di erbacce, e si oltrepassava l’ingresso laterale, era possibile dare una sbirciata dentro l’autoporto dove le statue di cartapesta delle divinità venivano tenute appoggiate con noncuranza contro la parete di legno, come dei materiali di scena scartati da qualche programma dell’orrore ai laser, vecchi mostri buttati da parte. Con una rapida occhiata Jaspin aveva individuato le forme familiari di Narbail, o Minotauro, Rei Ceupassear… Forse tenevano i grandi Chungirà-Lui-Verrà e Maguali-ga in qualche altro posto più sicuro. Ma in quel circondario, dove il Senhor Papamacer era come un re, chi mai avrebbe osato fare qualcosa alle statue degli dèi?

Jaspin aspettò. Era nervoso. Per lo meno, nell’anticamera di un medico ti davano qualcosa da leggere… qualche vecchia rivista, un cubo da suonare, qualcosa. Qui, niente del tutto. Jaspin aveva molta paura e cercava, con tutte le forze, di non ammetterlo a se stesso.

Questa è un’escursione sul campo, pensò. È come se tu stessi facendo il tuo dottorato e dovessi avere un colloquio con il grande sacerdote, l’uomo del mumbo. È tutto qui. Quest’oggi stai facendo una ricerca antropologica.