Il che era vero, in un certo senso. Lui sapeva perché voleva incontrare il Senhor Papamacer. Ma perché, per l’amor di Dio, il Senhor Papamacer voleva vedere lui?
Uno dei tumbondé tornò nella stanza. Jaspin non riusci a capire quale fosse: a lui parevano tutti uguali, una tecnica molto scarsa per qualcuno che si piccava di essere un antropologo. Con addosso i suoi gambali rossi e neri, la sua giacca d’argento, gli stivaletti dai tacchi alti, il tumbondé avrebbe potuto essere un torero. Il suo volto era la faccia d’un dio azteco, gelida, inscrutabile, zigomi come coltelli. Jaspin si chiese se quello non fosse uno degli undici apostoli che stavano al vertice, il Nucleo Interno. — Il Senhor Papamacer è quasi pronto per te — disse a Jaspin. — Alzati e vieni qui.
Il tumbondé lo tastò per controllare se non avesse addosso delle armi, non tralasciando una sola parte del suo corpo. Jaspin annusò la fragranza d’un qualche tipo di olio dolce fra i capelli folti e scuri, raccolti a crocchia, dell’uomo. Olio di pirola, essenza di cedro, qualcosa del genere. Cercò di non tremare mentre il tumbondé esplorava i suoi indumenti.
L’avevano fermato dopo i riti mentre lui e Jill se ne stavano andando. Era successo un paio di settimane prima. Cinque di loro l’avevano circondato senza dare nell’occhio, mentre lui aveva ancora la testa piena delle visioni di Maguali-ga. Ecco, aveva pensato allora, mezzo stordito: adesso stanno per fare un sacrificio umano, e hanno notato il ragazzo ebraico con l’aria dello studioso, e la sua amica shiksa tutta pelle e ossa, i tipi etnici sbagliati in mezzo a quella folla molto etnica, e in cinque minuti ci troveremo nella capanna del sangue, accanto al toro bianco, e noi tre, Jill, il toro ed io, ci troveremo con la gola recisa. Con il sangue che scorrerà tutto insieme in un unico calice. Ma non era stato così. — Il Senhor ha delle parole da dirti — l’avevano informato. — Quando sarà il momento, uomo, desidera parlare con te. — Per due settimane Jaspin si era preoccupato fin quasi ad impazzire, al pensiero di cosa mai potesse essere quella faccenda. Adesso era giunto il momento.
— Adesso entra — disse il tumbondé. — Tu molto fortunato, faccia a faccia con il Senhor.
Altri due toreri in gran tenuta entrarono nella stanza. Uno si piazzò davanti a Jaspin, uno dietro, e lo scortarono lungo un corridoio buio che puzzava di legno marcio e di muffa. Non pareva probabile che avessero intenzione di ucciderlo, ma lui non poteva scuotersi di dosso il timore. Aveva detto a Jill di chiamare la polizia, se non fosse tornato entro le quattro di quel pomeriggio. Gli sarebbe proprio servito a tanto! Ma per lo meno avrebbe potuto farne uso per minacciare i tumbondé nel caso in cui la faccenda avesse cominciato a farsi paurosa.
— È questa la stanza. Qui è molto sacro. Tu vai dentro.
— Grazie — disse Jaspin.
La stanza era assolutamente quadrata, illuminata soltanto da candele. Delle tende di pesante broccato coprivano le finestre. Quando gli occhi di Jaspin si furono abituati, vide un tappeto sul pavimento, a disegni frastagliati rossi e verdi, e un uomo seduto a gambe incrociate sul tappeto. Era completamente immobile. Alla sua destra c’era una piccola figura del dio cornuto, Chungirà-Lui-Verrà, scolpita in qualche tipo di legno esotico. Maguali-ga, tozzo e con un aspetto da incubo, con il suo grande occhio sporgente, si trovava alla sinistra dell’uomo. Non c’era nessun mobile. L’uomo sollevò lo sguardo molto lentamente, trafiggendo Jaspin con un’occhiata. La pelle era molto scura, ma i lineamenti non erano esattamente negroidi, e il suo sguardo immobile era il più feroce che Jaspin avesse mai visto. Era il volto d’ebano del Senhor Papamacer, non c’erano dubbi. Ma il Senhor Papamacer era un gigante, per lo meno quando si stagliava in cima alla collina dei tumbondé, sul luogo della comunione, mentre quell’uomo, da quanto Jaspin poteva giudicare, considerato che era seduto, pareva assai ristretto, snello. Be’, sanno creare molto bene delle illusioni, pensò. Probabilmente gli avevano infilato delle scarpe a trampoli e l’avevano vestito d’imbottiture, facendolo apparire grande e grosso. Jaspin cominciò a sentirsi un po’ più calmo.
— Chungirà-Lui-Verrà — disse Senhor Papamacer, con la ben nota voce sotterranea, tre registri al disotto del basso. Quando parlava, niente si muoveva, salvo le sue labbra, e anche queste molto poco.
— Maguali-ga. Maguali-ga — rispose Jaspin. Un sorriso glaciale.
— Tu sei Jaspin. Siediti. Por favor.
Jaspin sentì un vento gelido spazzare la stanza. Sicuro, pensò: un vento gelido dentro una stanza senza finestre, a San Diego, in agosto. Sapeva che il vento non era reale: lo sapeva; ma il gelo che stava provando lo era. Manovrò per sedersi sul tappeto rosso e verde, riuscendo con qualche scricchiolio ad assumere la posizione del loto per uguagliare quella del Senhor Papamacer. Gli pareva che qualcosa stesse per scoppiargli in uno dei fianchi, ma si costrinse a conservare quella posizione. Era di nuovo spaventato, ma in una maniera molto calma.
Il Senhor Papamacer disse: — Perché sei venuto da noi tumbondé?
Jaspin esitò, poi rispose: — Perché questo è stato un periodo buio e tormentato della mia anima. E mi è parso, tramite Maguali-ga, di riuscire a trovare la giusta via.
Come spiegazione suona piuttosto bene, disse in silenzio tra sé.
Senhor Papamacer lo fissò senza parlare. I suoi occhi scuri e lucidi come ossidiana, lo scrutavano spietati.
— È merda quello che dici — dichiarò poi esplicitamente a Jaspin, scodellando le parole con calma, senza malizia né rancore, quasi con gentilezza. — Mi hai detto quello che pensi che io voglia sentire. No. Adesso mi dici perché professore bianco viene da tumbondé.
— Perdonami — disse Jaspin.
— Non c’è da perdonare niente — replicò Senhor Papamacer. — Tu prega Rei Ceupassear, lui dà perdono. A me, tu dai solo la verità. Perché vieni da noi?
— Perché non sono più un professore.
— Ah, bene, la verità.
— Lo ero. UCLA. Sì. — Era come parlare a un idolo di pietra. L’uomo era completamente impassibile, la più formidabile presenza che Jaspin avesse mai incontrato. Arrivato in California da qualche puzzolente, rissosa favela sul fianco d’una collina vicino a Rio de Janeiro, così dicevano, quando gli argentini avevano spolverato il Brasile, e adesso era venerato dalle moltitudini. E sedeva sul lato opposto di quel tappetino rosso e verde, quasi a portata di mano. — Hai lasciato UCLA. Quando?
— All’inizio dell’anno scorso.
— Ti hanno licenziato?
— Sì.
— Lo sappiamo. Sappiamo di te. Perché fatto questo, eh?
— Non mi presentavo a tenere le lezioni. Facevo un sacco di cose strane. Non so. Un periodo buio e tormentato nella mia anima. Davvero.
— Davvero. Sì. E tumbondé, perché?
— La curiosità — farfugliò Jaspin, e quando la parola gli uscì di bocca, fu come se la corda che lo stringeva intorno al petto si fosse spezzata. — Sono un antropologo. Ero. Sai cos’è, l’antropologia?
Lo sguardo gelido dell’altro gli disse che aveva commesso un grave errore.
Jaspin proseguì: — A volte non so se capisci le mie parole. Mi dispiace. Un antropologo. Anni di addestramento. Anche se non ero un professore, mi consideravo ancora come tale. — Il colore gli stava tornando alle guance. Prosegui, digli la verità, pensò. Ha il tuo numero, comunque. — Così, volevo studiarvi. Studiare il vostro movimento. Capire cos’è veramente questa cosa dei tumbondé.
— Ah. La verità. Fa sentire bene, la verità.
Jaspin sorrise, annuì. Il sollievo era enorme.
Senhor Papamacer disse: — Scrivi libri?
— Avevo in mente di scriverne uno.
— Tu non ancora scritto uno?