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— Articoli. Saggi. Recensioni. Per riviste di antropologia. Non ho ancora scritto il mio libro.

— Scrivi un libro su tumbondé?

— No — disse lui. — Non adesso. Pensavo che forse l’avrei fatto, ma adesso non lo farei più.

— Perché no?

— Perché ho visto Chungirà-Lui-Verrà — spiegò Jaspin.

— Ah. Ah. Anche questa è la verità. — Di nuovo un lungo silenzio, ma non gelido. Jaspin si sentiva totalmente alla mercé di quello strano ometto. Era del tutto terrorizzante, questo Senhor Papamacer. Alla fine disse, come da una distanza remota: — Chungirà-Lui-Verrà, lui verrà.

Jaspin diede la risposta rituale: — Maguali-ga. Maguali-ga.

La collera balenò in quegli occhi di ossidiana: — No, adesso intendevo qualcos’altro! Lui verrà, sto dicendo. Presto. Marceremo verso nord. Ce ne andremo, ormai, uno di questi giorni, o quasi. Dieci, cinquantamila di noi, non so, centomila. E giunto il tempo del Settimo Posto, Jaspin. Andremo verso nord. California. Oregon. Washington. Canada. Fino al Polo Nord. Sei pronto?

— Sì. Davvero.

— Davvero, sì. — Il Senhor Papamacer si sporse in avanti. I suoi occhi avvampavano. — Ti dirò cosa fare. Tu marci con me, con Senhora Aglaibahi, con il Nucleo Interno. Tu scrivi il libro sulla marcia. Tu hai le parole, hai il sapere. Qualcuno deve raccontare la storia per quelli che vengono dopo, come fu Papamacer ad aprire la strada a Chungirà-Lui-Verrà. Questo è quello che voglio, che tu marci accanto a me e racconti quello che abbiamo fatto. Tu, Jaspin. Tu! Ti abbiamo visto sulla collina. Abbiamo visto il dio entrare dentro di te. E tu hai le parole, tu hai la testa. Sei un professore e sei anche un tumbondé. È la verità. Tu sei il nostro uomo.

Jaspin lo fissò.

— Di’ quello che farai — disse Senhor Papamacer. — Rifiuti?

— No. No. No. No. Lo farò. Da luglio mi sono impegnato a partecipare alla marcia. Davvero. Tu sai che sarò là. Sai che scriverò quello che vorrai.

Con calma, il Senhor Papamacer disse, con una voce ricca di bui misteri al di là della comprensione di Jaspin: — Io ho camminato con i veri dèi, Jaspin. Conosco le Sette Galassie. Gli dèi sono veri dèi. Io chiudo gli occhi ed essi vengono a me… e adesso, quando neppure sono chiusi. Tu dirai questo, la verità?

— Si.

— Hai visto tu stesso gli dèi?

— Ho visto Chungirà-Lui-Verrà. Le corna. Il blocco di pietra bianca.

— In cielo, cosa c’è?

— Un sole rosso… da qui a qui. E da questa parte un sole azzurro.

— È la verità. Tu hai visto. Non gli altri.

— Non gli altri. No.

— Lo farai. Li vedrai tutti, Jaspin. A mano a mano che marciamo, tu vedrai ogni cosa, le Sette Galassie. E scriverai la storia. — Il Senhor Papamacer sorrise. — Tu dirai solo la verità. Sarà molto male per te se non lo farai, tu capisci? La verità, solo la verità. Altrimenti quando il cancello sarà aperto, Jaspin, ti consegnerò agli dèi che servono Chungirà-Lui-Verrà, e gli dirò quello che hai fatto. Sai, non tutti gli dèi sono gentili. Tu non scrivi la verità? Ti darò a degli dèi che non sono gentili. Lo sai, Jaspin. Lo sai. Ti dico questo: non tutti gli dèi sono gentili.

3

Il giro del mattino, uno dei compiti regolari. La routine era importante, qualcosa di fondamentale per l’intera struttura, per loro e talvolta perfino per lei. In questo momento specialmente per lei. Passare attraverso i dormitori, stanza per stanza, controllare che tutti i pazienti uscissero, vedere come se la cavano dopo che la loro mente tornava dalla mondata mattutina. Fargli coraggio se era possibile. Farli sorridere un po’. Sarebbe servito ad aiutare la loro ripresa, se avessero sorriso un po’ di più. Il sorriso era una cura ben nota per un mucchio di cose: attivava lo scorrere verso l’esterno degli ormoni placanti, ecco cosa faceva quella piccola contrazione dei muscoli facciali, faceva schizzare ogni tipo di sostanze benefiche nei loro stanchi flussi sanguigni.

Anche tu… si, anche tu dovresti sorridere un po’ più spesso, pensò Elszabet.

Stanza Sette. Ferguson. Menendez. Doppio Arcobaleno. Bussò. — Posso entrare? Sono la dottoressa Lewis.

Aspettò fuori della porta. Dentro, silenzio. A quell’ora del mattino, molto spesso non avevano granché da dire. Be’, nessuno aveva detto che non poteva entrare, giusto? Appoggiò la mano sulla piastra. La piastra di ogni porta dell’edificio era predisposta per accettare la sua impronta, quella di Bill Waldstein, e di Dan Robinson. La porta si aprì, scivolando di lato.

Menendez sedeva sull’orlo del letto con gli occhi chiusi. Aveva degli auricolari ossei appiccicati alle guance e stava muovendo la testa con scatti violenti da parte a parte, come se stesse ascoltando una musica fortemente ritmata. Sull’altro lato della stanza, Nick Doppio Arcobaleno giaceva steso a pancia in giù sulla sua coperta indiana rosso vivo, gli occhi fissi nel vuoto, il mento sollevato sui pugni e i gomiti. Elszabet si avvicinò a lui, fermandosi accanto al suo letto per attivare lo schermo dell’intimità intorno a lui. Una crepitante luminosità rosata, sottile ma densa, eruppe nell’aria, trasformando quell’angolo della stanza di Doppio Arcobaleno in un cubicolo privato.

Nel medesimo istante, proprio mentre lo schermo s’innalzava fulmineo tutt’intorno a loro, Elszabet sentì che la sua mente veniva invasa da un verde viticcio di nebbia. Quasi come se l’energia dello schermo avesse permesso a quell’impalpabile sostanza verdastra di passare. Sorpresa, paura, shock, rabbia. Qualcosa che sorgeva dal pavimento per infilzarla. Trattenne il fiato. La sua colonna vertebrale si tese.

No, pensò con ferocia. Per l’inferno, vattene via da qui. Vattene. Vattene.

Quel verdeggiare vagante se ne andò. E una volta scomparso, Elszabet trovò difficile credere che fosse stato dentro di lei soltanto un attimo prima, anche se così fugace. Si permise di respirare; impose alla propria schiena e alle spalle di rilassarsi. L’indiano pareva non aver notato niente. Ancora a pancia in giù, ancora con lo sguardo fisso.

— Nick? — disse lei.

Lui continuò ad ignorarla.

— Nick, sono la dottoressa Lewis. — Gli toccò delicatamente la spalla. Nick sussultò come se fosse stato punto da un calabrone. — Elszabet Lewis. Mi conosci?

— Già — fece lui, senza guardarla.

— Brutta mattina.

Con voce priva d’inflessione, Nick replicò: — È tutto sparito. Tutto.

— Cosa, Nick?

— La gente. La cosa che avevamo. Dannazione, tu sai che avevamo una cosa e che ci è stata portata via. Perché dev’essere successo? Che diavolo di ragione c’è perché dovesse succedere?

Così, era di nuovo immerso nella fissazione dell’Uomo Rosso che svanisce. Era smarrito nella contemplazione della suprema ingiustizia di quel fatto. Si poteva mondarlo, e rimondarlo, e stramondarlo, ma per qualche motivo non si riusciva mai a mondarlo abbastanza a fondo da togliergli via quella roba. Era soprattutto questo il motivo per cui lo avevano scaricato lì al Centro: era arrivato lì che soffriva di una forma di disperazione profonda e costante, quella che Kierkegaard aveva descritto come la malattia del pensiero della morte, definendola qualcosa di peggiore della morte stessa, e che al giorno d’oggi veniva chiamata la sindrome di Gelbard. Come sindrome di Gelbard aveva un nome assai più scientifico. Nick Doppio Arcobaleno aveva perso la fede nell’universo. Pensava che tutta quella maledetta cosa fosse inutile e senza scopo, se non addirittura malevola. E non stava migliorando. Certo, adesso la sua memoria era ridotta a un colabrodo, ma la malattia del pensiero della morte rimaneva, ed Elszabet sospettava che non avesse niente a che fare con la sua presunta eredità indoamericana, ma soltanto col fatto che era stato abbastanza sfortunato da nascere nella seconda metà del ventunesimo secolo, quando tutto il mondo, esausto dopo centocinquant’anni di stolte brutture autodistruttive, cominciava a venir sopraffatto da questa epidemia di disperazione onnicomprensiva. Era possibile che Bill Waldstein avesse effettivamente ragione quando diceva che Doppio Arcobaleno non era affatto indiano. Ma non aveva importanza. Quando si era in preda alla malattia del pensiero della morte, ogni pretesto era buono per trascinarti giù dentro il pozzo.