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— Nick, sai chi sono?

— La dottoressa Lewis.

— Il mio nome?

— Elsa… Ezla…

— Elszabet.

— Ecco. Sì.

— E chi sono?

Una scrollata di spalle.

— Non te lo ricordi?

Lui la guardò, uno sguardo scentrato, gli occhi scuri a fuoco sulla sua guancia. Era un uomo grosso e tarchiato, con le spalle robuste, un ampio naso camuso e una pelle grigiastra, non esattamente la sfumatura color rame della sua presunta razza, ma abbastanza vicina. Da quando le aveva sferrato un pugno, un paio di settimane prima, non era più stato capace di guardarla dritto negli occhi. Da quanto si riusciva a capire, non aveva nessun ricordo di aver dato in escandescenze, di averla colpita e ferita. Ma lei sospettava che alcune vestigia del fatto dovessero ancora perdurare in lui. Quando lei era intorno, lui si mostrava afflitto e imbarazzato e anche risentito, come se si sentisse colpevole di qualcosa, ma non fosse sicuro di cosa, e fosse un po’ arrabbiato con la persona che gli faceva provare questa sensazione.

— Professore — disse. — Dottore. Qualcosa del genere.

Lei replicò: — Abbastanza vicino. Sono qui per aiutarti a sentirti meglio.

— Sì? — Un guizzo d’interesse, che si spense in fretta.

— Sai cosa voglio che tu faccia, non è vero, Nick? Che tu esca da quel letto e scenda in palestra. Giusto adesso Dante Corelli ha in corso la sua lezione di ritmo e movimento. Tu sai chi è Dante, vero?

— Dante? Già. — Un po’ dubbioso.

— Conosci l’edificio della palestra?

— Tetto rosso. Sì.

— Proprio quello. Tu scendi là sotto e comincia a ballare, e balla fino a consumarti il culo, mi hai capito, Nick? Balla fino a quando non sentirai la voce di tuo padre che ti dice di smettere. O fino al campanello del pranzo, qualunque cosa venga per prima.

A queste parole Nick s’illuminò un po’. La voce di suo padre. Il senso della struttura tribale. Gli faceva bene pensare alla voce di suo padre.

— Sì — annuì. Nella sua maniera greve, cominciò a spingersi su dal letto.

— Hai fatto qualche sogno stanotte? — gli chiese lei con noncuranza.

— Sogni. Quali sogni… come? Non ho nessun modo di saperlo.

Aveva sognato della Gigante Azzurra, con la sua luce aspra e penetrante: era sul rapporto che lei aveva ricevuto quella mattina dalla stanza della mondatura. Comunque, pareva sincero quando diceva di non ricordare.

— D’accordo — disse Elszabet. — Adesso vai pure a ballare. — Gli sorrise. — Fai la danza della pioggia, magari. In questo periodo dell’anno un po’ di pioggia non ci starebbe affatto male.

— Troppo presto — replicò lui. — È uno spreco di tempo mettersi a danzare per la pioggia adesso. Le piogge non arrivano fino a ottobre. E ad ogni modo, cosa ti fa pensare che danzare porti la pioggia? Ciò che porta la pioggia è il sistema di basse pressioni che arriva dall’Alaska in ottobre.

Elszabet scoppiò a ridere. Così, non dà ancora completamente i numeri, pensò. Bene. Bene. — Vai a ballare lo stesso — lo sollecitò. — Ti farà sentire meglio. È garantito. — Tirò un calcio all’interruttore per far sparire lo schermo della privacy e andò sul lato della stanza in cui si trovava Tomás Menendez. Sedeva nella stessa posizione di prima, intento ad ascoltare i suoi auricolari ossei. Quando attivò il suo schermo della privacy, si preparò ad un altro assaggio della nebbia verde, ma questa volta il fenomeno non si manifestò. Adesso, press’a poco un giorno sì e un giorno no ne subiva una folata, una sensazione bizzarra, quell’allucinazione che le girava intorno come un avvoltoio in attesa di posarsi. Era arrivata al punto da aver paura di addormentarsi, chiedendosi tutte le volte se quella non sarebbe stata la notte in cui il Mondo Verde sarebbe finalmente penetrato nella sua coscienza. Ciò continuava a terrorizzarla, la paura di attraversare il confine che separava il guaritore dall’allucinato.

— Tomás? — chiamò con voce sommessa.

Menendez era uno dei casi più interessanti: quarant’anni, seconda generazione messicana-americana, un uomo forte, grande e grosso, goffo, con braccia come quelle di un gorilla, ma gentile, sì, gentile, l’uomo più gentile che lei avesse mai conosciuto: parlava con voce affabile, dolce, calda. A modo suo era uno studioso e un poeta, profondamente coinvolto nel proprio retaggio etnico allo stesso modo in cui Nick Doppio Arcobaleno sosteneva di essere con il proprio, ma Menendez pareva facesse sul serio. Aveva trasformato l’area intorno al proprio letto in un piccolo museo di cultura messicana, olostampe di dipinti di Orozco e Rivera e Guerrero Vasquez, un paio di sogghignanti scheletri del Giorno dei Morti, un branco di animali d’argilla dipinti a vivaci colori, cani, lucertole e uccelli.

Due anni prima Menendez aveva strangolato la moglie nel loro grazioso piccolo soggiorno giù a San José. Nessuno sapeva perché, e meno di tutti Menendez, il quale non aveva il minimo ricordo di averlo fatto, non sapeva neppure che sua moglie era morta, continuava ad aspettarsi che lei gli facesse visita il prossimo fine settimana o quello successivo. Quella era una delle più strane manifestazioni della sindrome di Gelbard, l’assassinio di parenti prossimi da parte di gente che, all’apparenza, non sembrava esser capace neppure di schiacciare una mosca. Se si diceva a Menendez che lui aveva ucciso sua moglie, vi guardava come se gli aveste parlato in turco o in babilonese: quelle parole semplicemente non avevano significato per lui.

— Tomás, sono io, Elszabet. Mi puoi sentire attraverso quegli auricolari, non è vero? Voglio sapere come stai.

— Molto bene, gracias. — Gli occhi ancora chiusi, le spalle che sussultavano ritmicamente.

— È una buona notizia. Cosa stai suonando?

— È la preghiera a Maguali-ga.

— Non la conosco. Cos’è: un antico canto azteco?

Menendez scosse la testa. Per un attimo parve scomparire, le ginocchia ballonzolanti, i pugni picchiati leggermente l’uno contro l’altro.

— Maguali-ga, Maguali-ga — cantò. — Chungirà-Lui-Verrà! — Elszabet si chinò più vicina a lui, cercando di sentire quello che lui sentiva, ma gli auricolari ossei trasmettevano i suoni soltanto a chi li portava. La custodia del cubo che Menendez stava suonando giaceva accanto a lui sul letto. La raccolse. Recava un’etichetta rozzamente stampata che pareva fatta in casa, una mezza dozzina di righe in una lingua che a tutta prima pensò potesse essere spagnolo; ma lei sapeva leggere un po’ lo spagnolo, e questo non riusciva a leggerlo. Portoghese? L’etichetta portava un indirizzo di San Diego. Tomás riceveva sempre dei pacchi dai suoi amici della comunità ’chicana: musica, poesie, stampe. Era un uomo molto amato. A volte lei si chiedeva se non avrebbero dovuto controllare tutti quei cubi e quelle cassette che riceveva. Potevano aver a che fare con cose in grado di ostacolare la sua guarigione, pensò. Ma naturalmente, qualunque cosa suonasse veniva mondata dalla sua mente il giorno successivo; e ovviamente lo rendeva felice il fatto di potersi tenere aggiornato con gli sviluppi culturali del suo popolo. — Maguali-ga è colui che apre il cancello — disse Menendez, con voce chiara e ferma, come se la frase potesse spiegarle tutto. Poi aprì gli occhi, soltanto per un momento, e corrugò la fronte. Parve sorpreso di aver compagnia.

— Tu sei Elszabet? — le chiese.