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— Sì.

— Hai un messaggio da mia moglie? Viene questo fine settimana, Carmencita?

— No. Non questo fine settimana, Tomás. — Non serviva a niente stare a spiegare. — Cos’era quello che stavi suonando?

— Mi è arrivato da Paco Real, San Diego. — Parve un po’ evasivo. — Paco mi manda un sacco di cose interessanti.

— Musica?

— Canzoni, inni — spiegò Menendez. — Cose molto belle, molto forti. Dimmi, questa notte ho sognato degli altri mondi?

— No, non stanotte.

— La notte precedente, però.

— Me lo stai chiedendo o me lo stai dicendo?

Menendez ebbe un sorriso triste. — I sogni sono così belli. È quello che annoto: i sogni sono così belli. Anche se devo perderli, la bellezza è la cosa che rimane. Quando mi verrà permesso di conservare i miei sogni, Elszabet?

— Quando starai meglio. Migliori continuamente, ma non sei ancora arrivato alla meta, Tomás.

— No. Suppongo di no. Così non devo sapere quando sogno di quei mondi. Va bene se annoto che i sogni sono così belli. So che non dovremmo neanche scriverne qualcosa a noi stessi. Ma questa è soltanto una piccola cosa, dire a me stesso dei miei sogni, anche se non dico a me stesso il sogno vero e proprio. — La fissò con ansia. — Oppure posso annotarmi anche i sogni?

— No. Non i sogni. Non ancora — lei rispose. — Ti spiace se ascolto il cubonotiziario?

— No, naturalmente no, ecco… Ecco qua. — Le applicò gli auricolari ossei alle guance, premendoglieli addosso con mano leggera, con un tocco tenero, quasi amoroso. Poi lui toccò una manopola, ed Elszabet sentì una profonda voce maschile, così profonda che pareva il tuonare d’una grande rana toro, o forse un coccodrillo, che cantilenava qualcosa di costante e ripetitivo, vagamente africano, un po’ barbaro, ma molto potente e inquietante. Sentì le parole che Menendez aveva mormorato: Maguali-ga, Chungirà. Poi vi fu parecchio di ciò che avrebbe potuto essere portoghese, il rullare di tamburi e il suono acuto di alcuni strumenti, e i rumori d’una folla che ripeteva la cantilena.

— Ma che cos’è — gli chiese.

— È come un incontro — spiegò Menendez. — Una preghiera sacra. Ci sono gli dèi. È molto bello. — Le tolse gli auricolari ossei con la stessa tenerezza con cui glieli aveva applicati. — Mia moglie non verrà a farmi visita questo fine settimana, eh?

— No, Tomás.

— Ah, peccato.

— Sì — disse Elszabet, spegnendo lo schermo. — Forse vorrai andare giù in palestra. Adesso c’è un gruppo di danza. Dovrebbe piacerti.

— Forse per un po’.

— Va bene. Sai per caso dov’è Ed Ferguson?

— Ed Ferguson? No. Credo che se ne vada fuori a passeggiare tra i boschi.

— Da solo?

— A volte la donna grossa. A volte la donna artificiale. Mi dimentico i nomi.

— April. Alleluia.

— Una di loro, sì. — Menendez prese con molta attenzione la mano di Elszabet nella propria. — Sei una donna molto gentile — disse. — Mi farai visita domani?

— Naturalmente — promise lei.

Quella strana cantilena discordante le risuonava ancora negli orecchi mentre s’incamminava lungo il corridoio per finire il suo giro. Philippa. Alleluia. April. Alleluia non c’era. E va bene: fuori in mezzo al bosco con Ferguson: quella era una vecchia storia. Si meritavano a vicenda, si disse: il truffatore a sangue freddo e l’essere artificiale a sangue freddo. Ma, subito dopo, si rimproverò per quella mancanza di carità. Che razza di guaritore sei, se pensi questo dei tuoi pazienti? Ma con la stessa rapidità con cui aveva aggredito se stessa, Elszabet si disincagliò. Hai diritto di essere umana, si disse. Non ti si chiede di amare tutti quelli che si trovano al Centro. O anche soltanto di trovarli simpatici. Ti si chiede soltanto di assicurarti che ricevano il trattamento di cui hanno bisogno.

Il suo passo divenne un lento trotto e poi uno jogging, quando ripercorse in salita la collina che conduceva al suo ufficio. La mattinata era bellissima, limpida e calda. Era il periodo dell’anno in cui una giornata dorata si succedeva a un’altra senza nessuna variazione o interruzione. La stagione estiva delle nebbie era terminata, e come Nick Doppio Arcobaleno le aveva saggiamente ricordato, alla stagione delle piogge mancava ancora un mese.

Questo pomeriggio andrò alla spiaggia, pensò Elszabet. Mi stenderò al sole, cercando di tirar fuori un po’ di senso da tutte queste cose.

La turbava immensamente il fatto che quelle stranezze si stessero insinuando in maniera strisciante nel Centro: i sogni condivisi, che lasciavano perplessi non soltanto perché erano condivisi, ma anche per il loro stupefacente contenuto, tutti quegli altri soli e pianeti e mostri alieni. E il diffondersi dei sogni tra il personale: Teddy Lansford e Naresh Patel, e appena ieri Dante Corelli, che, stupefatta, aveva confessato il sogno con i Nove Soli. Elszabet sospettava che anche altri membri del personale avessero fatto sogni spaziali, ma lo nascondessero, proprio come lei non era stata ancora capace di ammettere con qualcuno che di tanto in tanto veniva invasa (e addirittura anche quando era sveglia) da sbavature fantastiche che parevano provenire dal sogno del Mondo Verde. Ogni cosa stava diventando strana. Perché? Perché?

Per Elszabet il Centro era l’unico luogo al mondo in cui si sentiva in pace, dove il folle subbuglio esterno veniva tenuto a bada. Era per questo che era venuta lì a fare il suo lavoro, per essere utile e allo stesso tempo sfuggire all’asprezza e ai dolori di quel mondo bruciato fuori dei cancelli del Centro. C’erano momenti in cui riusciva quasi a dimenticare ciò che accadeva là fuori, malgrado il costante influsso delle vittime della sindrome di Gelbard, in preda a convulsioni continue e con lo sguardo vacuo, che glielo ricordava senza scampo. Tuttavia, il Centro era un luogo tranquillo. Eppure… eppure sapeva che era folle sperare di riuscire a sottrarsi per sempre al mondo reale, in quel luogo. Il mondo reale era dappertutto. E adesso il mondo reale stava diventando irreale, e l’irrealtà si stava insinuando attraverso i cancelli come nebbia.

Mentre Elszabet si stava avvicinando al proprio ufficio, Bill Waldstein le venne incontro proveniente dalla direzione del Quartier Generale, e chiese: — Dove sono tutti?

— Chi? Il personale? I pazienti?

— Proprio tutti. Questo posto mi sembra terribilmente silenzioso.

Elszabet scrollò le spalle. — Dante sta giusto lavorando con un grosso gruppo di danza. Immagino che quasi tutti siano in palestra. Chi stavi cercando? Tomás e l’indiano sono nella loro stanza. Philippa e April anche. Ferguson si sta divertendo nel bosco con Alleluia…

Waldstein aveva un aspetto tirato e stanco. — È vero che Dante ha fatto un sogno spaziale l’altra notte?

— Farai meglio a chiederlo a lei — rispose Elszabet.

— L’ha fatto, allora. L’ha fatto. — Strascicò i sandali sul terreno. — Possiamo andare nel tuo ufficio, Elszabet?

— Certo. Cosa sta succedendo, Bill?

Non parlò, fino a quando non si trovarono nella stanzetta. Poi, lasciandosi crollare accanto alla dati-parete, le rivolse un’occhiata stranita e disse: — Confidenziale?

— Assolutamente.

— Ricordi quando dicevo che i sogni spaziali dovevano essere un imbroglio, che i pazienti se li inventavano soltanto per farci ammattire? Già da un po’ non ci credevo più, immagino. Ma di certo non ci credo adesso.

— Oh — disse lei.

— Adesso ne ho uno anch’io.

— Tu?

— Ne ho fatto uno con la Stella Doppia Tre, la scorsa notte. Con tutto, le campane, i fischi, il sole arancione alto nel cielo e quello giallo più vicino all’orizzonte, le doppie ombre. Poi il sole giallo è calato e ogni cosa è diventata di fiamma.