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Elszabet lo guardò da vicino. Pensò che sarebbe scoppiato in lacrime.

— Aspetta — lui le disse. — C’è dell’altro. L’ho migliorato. Quando April l’ha fatto la settimana scorsa, non c’erano forme di vita, giusto? Io ho ricevuto anche le forme di vita. Creature azzurre a forma di sfera con piccoli tentacoli da calamaro all’estremità più alta. Non è affascinante…? E passeggiavano in una specie di anfiteatro come Aristotele e i suoi discepoli. Affascinante, molto affascinante.

— Come ti senti? — gli chiese Elszabet.

Waldstein scrollò le spalle. — Sporco dentro la testa. Come se avessi dei granelli di sabbia raschiami su tutta l’imbottitura del mio cranio.

— Bill…

La compassione la invase. Quello era il momento di dirgli che non era solo, che lei aveva percepito il sogno del Mondo Verde pruderle ai margini della mente… che lei stessa temeva l’identica cosa che temeva lui. Non riuscì a farlo. Era una cosa schifosa non dirglielo quand’era fin troppo chiaro quanto soffriva. Ma non poteva farlo. Permettere a lui, a chiunque, di sapere che anche la sua mente era vulnerabile a quella roba: no. No, non l’avrebbe fatto. Non poteva. Si sentiva ipocrita. E allora preferiva esserlo davvero. Sì, preferiva esserlo. Esteriormente rimase fredda, calma, la comprensiva amministratrice che ascoltava la confessione di un membro del personale in preda al turbamento.

Dagli qualcosa, pensò Elszabet.

— Posso dirti che non sei solo in questa faccenda — gli disse un attimo dopo.

— Lo so. Teddy Lansford, Dante. E anche Naresh Patel, credo, da qualcosa che si è lasciato sfuggire qualche settimana fa. E probabilmente altri di noi.

— Probabilmente — lei disse.

— Così, non è soltanto un fenomeno psicotico limitato ai pazienti.

— Non è mai stato limitato ai pazienti. Sin quasi dall’inizio ha colpito membri del personale.

— E allora sono psicopatici anche loro. Pensi che siano i primi stadi della sindrome di Gelbard?

Elszabet scosse la testa: — Punto primo, smettila di usare parole grevi come psicopatico, d’accordo? Secondo, il fatto di condividere una manifestazione come questa con delle vittime della sindrome di Gelbard non significa necessariamente che anche tu ne sia affetto, significa soltanto che sta accadendo qualcosa di molto peculiare, che tende a colpire i pazienti con maggiore velocità rispetto al personale, ma colpisce anche il personale. Terzo…

— Elszabet, ho paura.

— Anch’io. Terzo, quello che abbiamo qui è un fenomeno che non è confinato nel Centro Nepenthe, come intendo mettere bene in chiaro all’incontro di domani dello staff.

Waldstein parve sorpreso. — Cosa vuoi dire?

— Spostati indietro e guarda la dati-parete — l’invitò Elszabet.

Si alzò lentamente in piedi e si girò. Elszabet attivò la parete. Comparve una mappa degli stati del Pacifico.

— Questi sogni — disse, — sono stati segnalati dai Centri di mondatura di San Francisco, Monterey, e Eureka. — Toccò un tasto, e lo schermo s’illuminò in quei tre punti. — Sono stata in contatto con i direttori di laggiù. Le stesse sette visualizzazioni, non necessariamente tutte e sette in ciascun centro. Soprattutto sperimentate dai pazienti, mentre la frequenza tra i membri del personale è inferiore.

— Ma cosa…

— Aspetta — lo fermò Elszabet. Altre luci comparvero sullo schermo. — Dave Paolucci a San Francisco ha raccolto i rapporti sull’incidenza dei sogni spaziali fuori della California Settentrionale, e sembra che molti nuovi dati stiano affluendo proprio in questo momento. — Disegni colorati sbocciarono all’estremità inferiore dello stato. — Guarda là — disse ancora Elszabet. — Devo chiamarlo. Devo ottenere i particolari. Vedi: un’intensa concentrazione di segnalazioni nell’area di San Diego. E alcune da Los Angeles. E anche lassù… cos’è? Seattle. Vancouver. Oh, Cristo. Bilclass="underline" guarda! È dappertutto. È una pestilenza.

— Anche Denver — disse Waldstein, indicando con il dito.

— Già. Denver. Che si trova press’a poco all’estrema area sud dalla quale possiamo ancora ricevere comunicazioni attendibili, ma chissà cosa mai sta succedendo al di là delle Rocciose. Perciò non sei soltanto tu, Bill. Quasi tutti, maledizione, sognano quei sogni.

— Per qualche motivo, questo non mi fa affatto sentir meglio — dichiarò Waldstein.

4

Ferguson disse: — Quello che mi piacerebbe fare, sarebbe battermela da questo posto quanto più in fretta possibile, e cominciare a fare un po’ di soldi sfruttando tutte queste sciocchezze.

— Come lo faresti? — chiese Alleluia.

— Diavolo, non ci vorrebbe poi una grande abilità. Sul lato principale del Centro c’è un cancello, ma su questo lato c’è soltanto la foresta. Potresti tagliare la corda al pomeriggio e trovare la via d’uscita, basta tenere dietro di sé il sole al pomeriggio e davanti la mattina, forse per due o tre giorni soltanto, se hai un minimo di buon senso. Basta arrivare fino alla vecchia superstrada e poi attraversare fino a Ukiah… diciamo…

— No, voglio dire, come faresti a farci i soldi?

Ferguson sorrise. Giacevano in mezzo al muschio, in una tranquilla radura a una ventina di minuti di cammino a est del Centro, sequoie, felci e un piccolo ruscello. In quella zona il terreno era accidentato e inclinato in maniera tale che sarebbe stato difficile per chiunque imbattersi in loro. Era il suo posto favorito. Si era assicurato di averne indicato la posizione sul suo anello registratore, così da non aver problemi a trovarlo di nuovo, anche se poteva capitare che gli mondassero i dati dalla mente dopo tutte le volte che era andato là. Alcune cose venivano dimenticate, altre no: non si poteva mai essere sicuri.

Disse: — È una cosa certa. I sogni spaziali non capitano soltanto ai pazienti di qui. Lo so di sicuro.

— Davvero?

— Io ascolto con molta attenzione. Conosci il tecnico, Lansford? Li ha avuti due o tre volte. Li ho sentiti parlare, Waldstein, Robinson, Elszabet Lewis. Credo che quel piccolo medico indù li abbia fatti. E perfino Waldstein, credo. Ma i sogni accadono anche fuori del Centro.

— Lo sai? — chiese Alleluia.

— Ho delle buone ragioni per pensarlo — insisté Ferguson. Le passò leggermente la mano sulla coscia, fermandosi subito prima dell’inguine. La sua pelle era liscia come seta. Ancora più liscia, forse. Era passata mezz’ora da quando l’avevano fatto e lui si sentiva ancora sudato, ma non Alleluia. Ecco il vantaggio che avevano quelle donne artificiali: erano perfette, non sudavano mai neppure tanto. — Ho un’amica a San Francisco. Mi ha parlato di un sogno che ha fatto una settimana fa, lo stesso che tu hai fatto una volta. Ricordi di aver fatto quel sogno? Le corna, il blocco di pietra bianca, i due soli?

— Pensavo che fossi stato tu a fare quel sogno.

— Io? No. Sei stata tu. Io non ho mai fatto nessuno dei sogni. Neanche uno. Quella volta che te l’ho detto è stato quando l’ha fatto quella mia amica di San Francisco. Se li fanno là, e li fanno qui, puoi scommettere che li fanno dappertutto.

— E allora?

Fece scivolare la mano fino al suo petto. Lei si mosse e si agitò contro di lui. Gli piaceva. Si sentiva quasi pronto a rifarlo. Proprio come un bambino, pensò: sempre pronto per un «ancora», perfino di questi giorni.

— Sai per quale motivo mi hanno mandato qui? — chiese.

— Me l’hai detto, ma me l’hanno mondato.

— Avevo messo su un imbroglio. Offrivo di mandare gente sugli altri pianeti, dove potevano farsi una nuova vita, sfuggire a questo casino della Terra, sai. Versatemi qualche migliaio di verdoni, e non appena il procedimento sarà perfezionato, sarete in grado di…

Alleluia chiese: — Riesci ancora a ricordare di averlo fatto?