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Mentre io canto «Un po’ di cibo, qualcosa da mangiare, da mangiare, da bere o da vestire. Vieni, dama o fanciulla, non aver timore, il povero Tom non farà male a nessuno».
Canto di Tom o’ Bedlam

1

Per Elszabet era una sera tranquilla. Alle 19 circa fece una semplice cena alla mensa del personale all’estremità est dell’edificio del Quartier Generale: insalata, una qualche specie di pesce alla griglia, una piccola caraffa di vino bianco, frizzante, prodotto da una delle cantine dei dintorni. Divise il tavolo con Lew Arcidiacono, il quale si occupava della maggior parte dei lavori di manutenzione elettronici e meccanici al Centro, e la sua ragazza, Rhona, la quale era assistente di Dante Corelli nel reparto di terapia fisica, e Mug Watson, il capo dei giardinieri. Nessuno di loro pareva aver molta voglia di conversare quella sera, il che andava benissimo ad Elszabet. Dopo, andò al centro ricreativo del personale e ascoltò un concerto per clavicembalo di Bach con accompagnamento olovisivo per un’ora o giù di lì, e alle 21 e 30 si avviò lungo il sentiero che conduceva alla sua capanna, molto più in là, sull’altro lato del Centro. Una serata tranquilla, sì.

Alla sera le cose erano sempre tranquille per Elszabet. Di solito le sue ultime sedute con i pazienti avevano luogo all’incirca alle 17: consultazioni di fine giornata, periodica revisione dei progressi dei pazienti, interventi nel caso in cui si fossero manifestate delle crisi, cose del genere. Poi le piaceva incontrarsi brevemente con i singoli membri dello staff per verificare i problemi speciali, i loro o quelli dei loro pazienti. Di solito, alle 18 e 30 il lavoro era finito, e la parte sociale della giornata, per quella che era, cominciava. Per Elszabet quella parte non era mai granché. Prima una cena di buon’ora (non aveva compagni regolari per la cena, si sedeva a qualunque tavolo dove ci fosse un posto libero) seguita da un’ora o due al centro ricreativo dello staff per visionare un film o un cubo, o per fare un tuffo notturno in piscina, e poi tornava alla sua capanna. Sola, naturalmente. Sempre sola, per sua scelta. Poteva leggere un po’, oppure ascoltare un po’ di musica, ma le sue luci erano invariabilmente spente molto prima di mezzanotte.

A volte si chiedeva cosa tutti gli altri pensassero di lei, una donna attraente che si teneva tanto sulle sue. La ritenevano forse strana e riservata? Bene, avevano ragione. Pensavano forse che fosse asociale, snob o asessuata. Una donna arrogante e sprezzante? Bene. Si sbagliavano, lei si teneva sulle sue perché tenersi sulle sue era quello che voleva fare di questi tempi. Era quello che aveva bisogno di fare. Quelli che la conoscevano meglio lo capivano; Dan Robinson, per esempio. Lei non cercava di snobbare nessuno. Soltanto di dare al suo spirito eroso e affaticato il tempo di rimarginarsi. Lì, in un certo senso, era anche lei una paziente, tanto quanto Padre Christie, o Nick Doppio Arcobaleno, o April Cranshaw. Che qualcun altro ne fosse consapevole oppure no, Elszabet lo era. Viveva sul ciglio, c’era vissuta per anni, aveva accettato il posto al Centro Nepenthe per guarire, oltre agli altri, se stessa. La differenza era che, invece di affidarsi ogni giorno al mondatore, così che le stridenti dissonanze potessero venir raschiate via dalla sua anima, e una nuova, sana personalità potesse formarsi nei nuovi posti vuoti venuti così a crearsi, lei cercava di farlo da sola, vivendo con cautela, schiarendo le sue risorse interiori indebolite, lasciando che le sue forze le tornassero gradualmente. Per lei quel posto era un rifugio. La vita fuori del Centro la logorava, così come logorava chiunque: le incertezze, le tensioni, le paure. La consapevolezza che il mondo che veniva offerto ad ognuno di loro era quasi in frantumi e correva il rischio di frantumarsi del tutto. Aveva deciso che la sindrome di Gelbard era riconducibile soltanto a questo, in effetti: la consapevolezza che oggigiorno la vita veniva vissuta sull’orlo dell’abisso. Era stata questa la conseguenza sulla gente della Guerra della Polvere. Da cento anni tutti si preoccupano della guerra atomica, il lampo di quella luce terribile, le città infrante, la carne fusa, e poi la guerra atomica arriva, non con le bombe ma con un grande silenzio, con la sua letale polvere radioattiva, assai meno spettacolare ma assai più insidiosa, grandi tratti di terra resi invivibili nell’arco di una notte mentre la vita prosegue in maniera ostentatamente normale al di fuori dei luoghi impolverati. Molte nazioni si sfaldano quando fasce di polvere rovente vengono sparpagliate attraverso le loro zone centrali. Vi sono migrazioni. Vi sono sconvolgimenti politici. Vi sono interruzioni nelle comunicazioni, nei trasporti, mentre vien meno il comune vivere civile. Le comunità si disgregano, i popoli si disgregano. Quello era stato un periodo apocalittico, qualcosa di molto brutto era successo, e tutti erano convinti che sarebbe successo qualcosa di ancora peggiore. Ma nessuno sapeva cosa. Quei sogni bizzarri, erano forse gli araldi? Chi poteva saperlo. Erano la causa o l’effetto? Stavano forse impazzendo tutti? Oppure, forse, tutti erano già pazzi. Elszabet pensava di essere più in forma della maggior parte della gente, ed era per questo che si trovava là nella veste di guaritrice invece che di paziente. Ma non s’illudeva. Era sempre in pericolo in questo mondo mutilato e infranto. Poteva cadere nel pozzo proprio com’era accaduto a Padre Christie, ad April o a Nick. Finora se l’era cavata per grazia di Dio, ma non sapeva fino a quando la grazia di Dio sarebbe durata. Così oggi come oggi procedeva lungo la sua vita con cautela, come qualcuno che attraversasse un campo minato da gusci d’uovo esplosivi. Adesso, l’ultima cosa di cui avesse bisogno erano una turbolenza o un’avventura emotiva di qualsiasi tipo; che gli altri s’impegnassero pure in tempestose vicende d’amore, lei no, pensò. Che gli altri ne raccogliessero pure i benefici e le perdite. Non che lei non ne sentisse la mancanza. A volte la sentiva terribilmente. Sentiva la mancanza di quel meraviglioso, caldo abbraccio, le mani sul suo petto, il ventre contro il ventre, gli occhi che guardavano dentro i suoi occhi, la spinta dura e improvvisa, la calda marea dell’appagamento, di lui, di lei, di loro. Non aveva dimenticato nessuna di quelle sensazioni. O anche soltanto la presenza dell’altro, lasciando fuori il sesso, soltanto la confortevole consapevolezza che là c’era qualcun altro, che non si doveva badare al negozio da soli. Una volta l’aveva avuto, o pensava di averlo avuto; forse un giorno l’avrebbe avuto di nuovo. Ma non adesso, non qui, mentre il ciglio era così vicino. La cosa che temeva più di ogni altra era averlo di nuovo per perderlo di nuovo. Meglio non tentare. Non fino a quando non si fosse sentita forte di dentro. A volte si chiedeva: se non adesso, quando? E non aveva nessuna risposta.

Sgusciò fuori dai suoi indumenti e rimase un po’ sulla veranda al buio.

La notte era calda. I gufi dialogavano tra le cime degli alberi. La lunga e dorata estate della California Settentrionale aveva ancora qualche settimana di vita, forse perfino molte settimane. Era soltanto settembre. A volte le piogge non cominciavano fino alla metà di novembre. Che cambiamento era quello, quando l’interminabile processione di giornate soleggiate, durata mesi, cedeva d’un tratto il posto agli implacabili rovesci dell’inverno della Contea di Mendocino! Poteva piovere per settimane di seguito, dicembre, gennaio, febbraio. E poi sarebbe stata di nuovo primavera, con gli alberi che rinverdivano, la terra inzuppata che cominciava ad asciugarsi.

Sentì delle risate lontane: quelli dello staff, i quali si stavano divertendo da qualche parte sul davanti del complesso. Per alcuni di loro quel posto era soltanto un grande campeggio estivo per adulti che durava tutto l’anno. Fai il lavoro di giorno, divertiti di notte, un po’ di baldoria in questa o quella capanna, forse una corsa in macchina fino a Mendocino, per una capatina in un club o in un ristorante o qualcosa del genere. Mendocino era la cosa più prossima a una città che ci fosse da quelle parti. Cinquant’anni prima aveva perfino goduto d’un piccolo boom, cercando d’imporsi come rivale di San Francisco nel predominio della California Settentrionale, in un’epoca in cui San Francisco soffriva di molte ferite che si era autoinflitte, ma alla fine era risultato chiaro ciò che in effetti avevano sempre saputo, e cioè che San Francisco era stata disegnata dalla geografia per essere una città importante, e non Mendocino. Malgrado ciò, quest’ultima aveva più o meno l’aspetto di una città, e ci si poteva divertire laggiù per il fine settimana, o per lo meno era ciò che Elszabet aveva sentito dire. Perfino nelle attuali condizioni del mondo, si poteva riuscire a divertirsi, se si aveva la capacità di chiudere gli occhi davanti a quello che realmente succedeva.