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Risate di nuovo. Acute, stavolta. Uno squittio o due. Elszabet sorrise, rientrò e andò a letto. Un po’ di musica, pensò, mentre si addormentava. Bach? No; aveva già ascoltato abbastanza Bach per quella sera. Schubert, il quintetto per archi? Certo. Una calda ragnatela di suoni, profonda, melodiosa, riflessiva. Spostò la levetta sull’automatico, cosicché il sistema si sarebbe spento da solo alla fine della musica, e accese il cubo. Giacque là, ascoltando solo con metà della propria mente, pensando più all’incontro di domani con lo staff che alla musica. Sogni spaziali da Vancouver, sogni spaziali da San Diego, sogni spaziali da Denver. Dappertutto. Paolucci sarebbe venuto da San Francisco per consegnare il suo rapporto. C’era perfino la possibilità che Leo Kresh ce la facesse a venire fin lì da San Diego. Correva voce che qualcosa di molto strano stesse accadendo a San Diego. Ma quello che accadeva dappertutto era strano. Quel pomeriggio, quand’erano discesi alla spiaggia, lei aveva riso all’idea di Dan Robinson che i sogni fossero messaggi che giungevano da una nave spaziale in avvicinamento alla Terra. Allora l’aveva giudicato un concetto remoto, assurdo, impensabile. Adesso non era più tanto sicura che fosse del tutto assurdo. Si chiese se Robinson non avesse fatto qualche altra ricerca in proposito, per controllare se una cosa del genere era possibile. Domani, all’incontro, gli chiederò se…

Ancora pensando all’incontro si smarrì nel sonno.

E a un certo punto, durante la notte, fece anche lei un sogno spaziale.

Il verde giunse per primo: piccole volute di densa nebbia impastata, che penetravano furtive nella sua mente. Era abbastanza vicina alla coscienza da sapere ciò che cominciava ad accadere. Ed era abbastanza addormentata che non gliene importava. Aveva tentato di respingere quella cosa fintanto che le era stato possibile. L’invasione del rifugio, una estraneità aliena che era filtrata fin là dentro Dio solo sapeva da dove. Adesso non era più capace di tenerla a bada. Il fatto di dover finalmente cedere le fece quasi provar sollievo. Vai avanti, disse al sogno. Procedi pure. Avvieni. Era ora, no? È il mio turno. D’accordo. È il mio turno, allora.

Verde.

Un cielo verde, un’aria verde, nuvole verdi. Il fianco della collina, il fiume molto più in basso, i prati che si perdevano fino all’orizzonte. Ogni cosa pareva morbida e amichevole, un dolce paesaggio tropicale. Eleganti alberi senza foglie, agili tronchi verdi, scagliosi rami verdi che si attorcigliavano verso l’esterno, reincurvandosi verso il suolo. Il sole visibile a stento dietro il velo della nebbia. Forse anche il sole era verde, pur se era difficile dirlo con sicurezza, visto il modo in cui la luce giungeva offuscata attraverso tutto quel turbinare di nebbia lanosa.

Qualcosa le stava facendo cenno.

Creature cristalline, agili, quasi delicate. I loro corpi dai lunghi arti luccicavano. I loro occhi scuri erano luminosi e scintillanti, una fila di tre su ciascuno dei quattro lati delle loro teste. Si stavano dirigendo verso un lucido padiglione sulla collina, appena oltre il punto dove lei si trovava, e la stavano invitando ad andare con loro, chiamandola per nome, Elszabet, Elszabet. Ma il modo in cui lo dicevano non era terrestre e suscitava un reverenziale timore, un silenzioso sussurro riverberante che risuonava su se stesso più e più volte, un bisbiglio in una camera piena d’echi che aveva come caratteristica un sibilo arcano e uno sfondo simile al rombo di venti lontani: Elszabet… Elszabet…

Sto arrivando, lei rispose. E mise la sua mano nelle loro mani fredde e cristalline e lasciò che la portassero via. Galleggiava appena sopra il terreno. Di tanto in tanto un filo di spessa erba carnosa le sfiorava le dita dei piedi: quando ciò accadeva, lei avvertiva un pizzicore acuto, ma non spiacevole, e sentiva un suono di campane.

Adesso stava entrando nel padiglione. Pareva fatto di vetro, ma di un vetro stranamente cedevole, caldo e gommoso al tocco, come lacrime coagulate. Tutt’intorno, si muovevano quei delicati esseri cristallini, chinandosi su di lei, sorridendole, accarezzandola. Dicendole i loro nomi: il principe di questo, la contessa di quello… Un gatto di cristallo camminava fra loro. Sfregò gli orecchi cristallini contro la sua gamba, e quando abbassò lo sguardo Elszabet vide che anche la sua gamba era di cristallo, che in effetti lei aveva un corpo come il loro, risplendente e meraviglioso. Qualcuno le mise in mano una bevanda. Aveva il sapore dei fiori: eruppe in mille brillanti colori mentre le ruscellava giù attraverso il corpo. Ti piace? le chiesero. Ne vorresti un altro? Elszabet, Elszabet. Là c’è il duca di qualcosa. Accanto a lui ci sono la duchessa e il duca di quest’altro; e questi è il marchese di qualche altra cosa ancora. Guarda, guarda: adesso la città sta comparendo alla vista più in basso! La vuoi? Se ti piace, daremo il tuo nome alla città. Ecco, è fatto: Elszabet, Elszabet. Tutti si congratularono con lei. Le si radunarono tutti intorno, e lei sentì il debole tintinnio delle loro braccia e delle loro gambe mentre si muovevano, un lieve sussurro argentino, come le decorazioni di un albero di Natale smosse dalla brezza. Ti piace questo posto, Elszabet? Noi ti piacciamo? Abbiamo scritto una poesia per te. Dov’è la poesia… dov’è il poeta? Ah, eccolo qua. Fate largo al poeta. Fate largo alla poesia.

Un cristallino che non aveva visto prima, più alto di tutti gli altri, si avvicinò a lei sorridendole timidamente. Vieni, le disse. Ho una poesia per te. Uscirono dal padiglione e il verde discese su di loro come una pioggia color smeraldo. Lui le mise qualcosa in mano, un piccolo oggetto intricato che pareva la scatola di un puzzle di vetro, strato dopo strato, trasparente fino al nucleo con un reticolo di abbaglianti componenti vitree che si stringevano in spire successive intorno al suo centro. Questa è la poesia, disse. L’ho chiamata Elszabet. Lei la toccò e una vampa di luce verde schizzò fuori da essa e balzò attraverso il cielo, e dal padiglione giunse un tintinnante suono di applausi. Elszabet, dicevano tutti. Elszabet, Elszabet.

La luce verde s’incupì e s’ispessì intorno a lei. Adesso l’aveva completamente avvolta. L’aria pareva quasi tangibile. Così calda… così lanosa. Così verde, verde, verde.

D’un tratto, agitata, si mosse, si girò, sospirò. Attraverso il verde riuscì a intravedere un lontano faro di aspra luce gialla, e quel vivido raggio destò in lei sgomento e una specie di vago timore. Una voce dentro di lei la sollecitò a tirarsi indietro, e un istante dopo riconobbe quella voce come la propria. Devi essere prudente, si disse. Sai dove stai andando? Sai cosa ti accadrà in quel posto? È tanto allettante. Tanto seducente. Ma tu sii prudente, Elszabet. Se vai troppo in là, potresti non uscirne mai più.

Oppure è già accaduto? Forse ci sei già dentro fin troppo. Forse non ci sarà più il modo di tornare. Elszabet toccò di nuovo la poesia, e di nuovo una luce verde sprizzò fuori da essa, e il poeta sorrise, e i cristallini applaudirono e sussurrarono il suo nome. Com’è verde ogni cosa, pensò Elszabet. Com’è bella. Com’è verde, verde, verde.