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Jaspin fermò la propria macchina vicino al secondo autobus, quello piccolo, arancione e nero, nel quale viaggiavano gli undici membri del Nucleo Interno e la maggior parte delle statue degli dèi, e discese. Si girò e si schermò gli occhi per proteggerli dal violento sole della metà del pomeriggio e guardò dietro di sé, verso il sottile nastro della strada che risaliva ripido fra le montagne dalle quali loro erano appena discesi. La fila dei veicoli si stendeva in lontananza verso la cima, fin dove arrivava il suo sguardo. Probabilmente si prolungava senza nessuna interruzione almeno fino a Gorman, e forse molto più oltre, al di là di passo Tejon, addirittura fino a Castaic. Incredibile. Sì, incredibile. Tutta questa faccenda è assolutamente incredibile, pensò. E per lui, uno degli aspetti più incredibili era costituito dalla sua stessa presenza, proprio lì, in testa alla processione, ad appena una tacca dietro il Nucleo Interno. Era qui come osservatore, certo: come antropologo. Ma questa era soltanto metà della storia, forse meno della metà. Lui sapeva di trovarsi lì anche come seguace del Senhor. Si era arreso; aveva accettato i tumbondé; stava andando a nord per aspettare l’apertura della via e la venuta di Chungirà-Lui-Verrà. La notte prima, disteso su un materasso ad aria, accanto all’auto, sul lato d’una strada desolata, abbandonata su quello che un tempo era stato Glendale o Eagle Rock, aveva avuto una visione di uno dei nuovi dèi che si muovevano sereni in un mondo dove il cielo ed ogni altra cosa erano verdi; e il dio, quella creatura splendente e fantastica, l’aveva salutato per nome e gli aveva promesso una grande felicità dopo la trasformazione del mondo. Com’è strano tutto questo, pensò Jaspin.

— Guarda — esclamò, rivolto a Jill. — È l’orda dei mongoli in marcia!

— Vorrei che tu non parlassi così, Barry.

— Ho detto qualcosa di sbagliato?

— L’orda dei mongoli. Non è niente del genere. I mongoli erano invasori, malvagi predoni. Questa è una santa processione.

Jaspin la fissò, stupito. Era talmente coperta di sudore che la pelle le luccicava. Attraverso la maglietta zuppa, quasi trasparente, si distinguevano i capezzoli. I suoi occhi luccicavano in maniera da far paura. Il bagliore del Vero Credente, pensò. Si chiese se anche i propri occhi mandassero mai un simile bagliore. Ne dubitava.

— Non è così? — lei insisté. — Santa?

— Sì. Certo che lo è.

— A volte sembri così irriverente.

— Davvero? — fece Jaspin. — È che non riesco a farne a meno, suppongo. È dovuto al mio addestramento antropologico. Non riesco mai a smettere di credere di essere un osservatore obbiettivo.

— Anche se credi?

— Anche così.

— Mi spiace per te — disse lei.

— Suvvia, calmati.

— Non mi piace, quando ti fai gioco di ciò che sta accadendo. L’orda mongola e tutto il resto.

— D’accordo — lui dichiarò. — Sono irriverente. E allora, sparami. È nei miei geni l’essere irriverente. Non posso farne a meno. Ho cinquemila anni d’irriverenza nel sangue. — Allungò la mano verso di lei, toccandole lievemente il braccio nudo, facendo scorrere la punta del dito sul sudore della sua pelle, lasciandovi così una striscia. Lei si tirò lontana da lui. Di recente aveva preso a farlo molto spesso. — Suvvia — le disse Jaspin. — Mi spiace d’essere stato irriverente.

— Se questa è l’ora dei mongoli — insisté Jill, — sei anche tu uno dei mongoli. Non scordartene.

Jaspin annuì. — Hai ragione. Non lo scorderò.

Jill gli voltò le spalle, mettendosi a frugare dentro la macchina, rovistando dentro il refrigeratore dell’acqua. Dopo un momento, tirò fuori una bottiglia d’acqua, ne trangugiò una lunga sorsata, e reinfilò dentro la bottiglia senza offirgliene. Poi si allontanò e si fermò poco più in là, mettendosi a fissare l’autobus del Senhor Papamacer.

Jaspin aveva notato che c’era stato un sottile cambiamento nel suo atteggiamento verso di lui da quando erano partiti da San Diego insieme alla carovana dei tumbondé. O forse non era poi così sottile. Jill era diventata più fredda; era diventata molto remota. Adesso era molto meno la ragazzina timida di un tempo, assai meno incerta e sottomessa, molto più sicura di sé. Non si mostrava più grata che il dottor Jaspin dell’UCLA, uomo di meravigliosa erudizione, le permettesse magnanimamente di stargli intorno. Adesso non spalancava più gli occhi per lo stupore; non rimaneva più a bocca aperta davanti alle sue parole, come se lui fosse il custode di tutta l’umana saggezza. E il rapporto sessuale fra loro, che era stato così libero e facile durante le due prime settimane, stava sbiadendo in fretta, si poteva difficilmente dire che ci fosse ancora. Be’, Jaspin aveva saputo che buona parte di questo sarebbe stato inevitabile: l’aveva visto accadere altre volte con altre donne. Dopotutto lui era un essere umano, piedi di argilla fino alle sopracciglia come chiunque altro, ed era inevitabile che presto o tardi lei lo scoprisse. Jill cominciava a vedere che lui era meno meraviglioso di quanto le sue fantasie l’avevano indotta a pensare, e aveva iniziato a vederlo, allora, più realisticamente. Okay. Lui l’aveva avvertita. Non sono la figura nobile, romantica e intellettuale che tu pensi io sia, le aveva detto fin dall’inizio. Avrebbe potuto anche dirle che non era quell’amante stupefacente che lei aveva immaginato, ma non ce n’era stato bisogno. Ormai aveva avuto tutto il tempo per scoprirlo da sola. Va bene. Va bene. Dopotutto, essere adorati non era poi una cosa così grandiosa, soprattutto quando non era basato su niente di reale. Ma qualcos’altro stava succedendo, qualcosa che gli faceva un po’ paura. Fondamentalmente Jill era ancora un’adoratrice, una personalità dipendente: ciò che aveva fatto era di trasferire la dipendenza da lui agli dèi dei tumbondé. Pareva che adesso il reverenziale timore che aveva avuto per lui si fosse trasferito sul Senhor Papamacer, come vicario sulla terra di Chungirà-Lui-Verrà. Sospettava che avrebbe fatto qualsiasi cosa i tumbondé le avessero chiesto. Qualsiasi cosa.

Alzò di nuovo lo sguardo verso sud, fissando l’alta muraglia della montagna. I veicoli stavano ancora scorrendo giù nella valle, una interminabile marea. Quello era il quinto giorno del viaggio, e giorno dopo giorno le dimensioni della processione erano cresciute. Avevano preso la strada dell’entroterra per evitare i problemi del traffico e le noie con le autorità delle grandi città costiere; erano saliti fino a posti quali Escondido e Vista e Corona, per poi aggirare il bordo orientale di Los Angeles. Era un viaggio lento, con fermate frequenti per i rituali e le preghiere e gli enormi pasti in comune. E ci voleva un’infinità di tempo a rimettere in moto le cose, quando veniva dato l’ordine di rimettersi in cammino. Probabilmente il grosso di quelli che si trovavano lì era gente che aveva fatto parte della carovana da San Diego, s’immaginò Jaspin (i tumbondé non erano molto conosciuti fuori della metà meridionale della contea di San Diego, dove si trovavano la maggior parte dei profughi), ma a mano a mano che quella processione avanzava, un gran numero di persone si era aggregato, forse moltissimi altri. Ormai potevano benissimo esserci cinquantamila persone. Perfino centomila. Era davvero l’orda dei mongoli in marcia.

— Jaspin?

Voltandosi, vide uno dei grandi capi dei tumbondé, quello chiamato Bacalhau. Adesso era arrivato a distinguerli con maggiore facilità. Malgrado l’intenso calore, Bacalhau indossava l’abbigliamento completo dei tumbondé, stivali, gambali e giacca, perfino il sombrero, o qualunque cosa fosse, quel cappello piatto, nero, dalle ampie tese.