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— Il Senhor ti vuole — gli annunciò Bachalhau. Lanciò un’occhiata a Jill. — Anche tu.

— Io? — esclamò lei, sorpresa.

Anche Jaspin era sorpreso. Non che il Senhor Papamacer lo convocasse per un’udienza: l’aveva fatto la sera prima, e ancora due giorni prima, propinandogli tutte le volte un lungo, ripetitivo e incoerente monologo, descrivendogli com’era successo che le prime visioni di Manguali-ga e di Chungirà-Lui-Verrà fossero entrate nella sua anima due o tre anni prima e come lui avesse subito capito di essere il profeta prescelto dai nuovi dèi. Ma perché Jill? Fino a quel momento il Senhor non aveva mostrato neppure di sapere che Jill esisteva.

— Voi venite — disse ancora Bacalhau. — Tutti e due.

Li condusse fino all’autobus del Senhor. Era dipinto con i colori di Maguali-ga e issava le gigantesche immagini di cartapesta di Prete Noir il Negus e di Rei Ceupassear montate sul cofano, su entrambi i lati del parabrezza. Una mezza dozzina di altri membri del Nucleo Interno oziavano fuori del suo ingresso quando Jaspin e Jill si avvicinarono: Barbosa, Cotovela, Lagosta, Johnny Espingarda, Pereira, e uno che era o Carvalho o Rodrigues. Jaspin non era sicuro quale dei due fosse. Come Bacalhau, indossavano tutti il costume ufficiale dei tumbondé, anche se qualcuno si era sbottonato il colletto.

— Maguali-ga, Maguali-ga — disse Lagosta, con aria annoiata.

— Chungirà-Lui-Verrà — rispose Jill, prima che Jaspin riuscisse a dare la risposta rituale.

Lagosta la fissò con un guizzo d’interesse negli occhi gelidi, ma soltanto per un istante. Rivolse anche a Jaspin un’occhiata di ghiaccio, come per dire: Chi sei tu, misero branco, triste, vomitevole creatura, da meritarti anche soltanto l’attenzione del Senhor Papamacer? Jaspin gli rispose con un’occhiata feroce. Il tuo nome significa aragosta, pensò. E il tuo, Bacalhau, baccalà. Bei nomi. Aragosta, baccalà. I santi apostoli del profeta.

— Permesso — disse Jaspin.

Gli uomini del Nucleo Interno stravaccati sui gradini dell’autobus si spostarono, facendo spazio perché potessero entrare. Dentro l’autobus l’aria era spessa e viziata, e aveva l’odore di qualche esotico incenso. Avevano tirato via tutti i sedili e diviso l’autobus con delle tende di broccato in tre piccole stanze, un’anticamera, una cappella nel mezzo, e un alloggio per il Senhor Papamacer e la Senhora Aglaibahi in fondo.

— Tu aspetta — disse Bacalhau.

Scostò la pesante tenda ed entrò nella cappella. La tenda tornò a chiudersi dietro di lui. Jaspin sentì una sommessa conversazione in portoghese.

— Riesci a capire quello che stanno dicendo? — chiese Jill.

— No.

— Cosa credi stia succedendo?

Jaspin scosse la testa. — Non ne ho la più pallida idea — bisbigliò.

Qualche istante dopo Bacalhau ricomparve con un paio di membri del Nucleo Interno che si erano trovati dentro l’autobus. Non c’era mai un momento in cui non fossero in sette od otto nelle vicinanze del Senhor. Jaspin non sapeva dire se il vero ruolo del Nucleo Interno fosse quello degli apostoli o delle guardie del corpo, o un po’ tutte e due le cose. Il Nucleo Interno era costituito esclusivamente da giovani brasiliani dalla pelle scura, undici uomini magri, freddi, che non sorridevano mai e avrebbero potuto esser scambiati più facilmente per bandido che per santi apostoli. Jaspin sapeva che c’erano anche alcuni africani nei grandi consigli dei tumbondé, ma non sembrava che avessero l’identico diritto di accesso al Senhor. Jaspin dubitava che fosse una questione razziale, dato che i brasiliani erano neri almeno quanto gli africani; era più probabile che il Senhor Papamacer si sentisse molto più a suo agio con gente della sua stessa terra.

— Tu vieni — disse Bacalhau, facendogli cenno.

Lo seguirono dentro l’interno dell’autobus che sapeva di stantio. Jaspin dovette lottare un po’ per riuscire a respirare. La sera prima, quand’era stato là dentro, l’aria gli era parsa sgradevolmente calda e opprimente, ma adesso, in mezzo all’abbacinante calore pomeridiano della valle, era del tutto soffocante. Tutti i finestrini erano chiusi, il fumo di una dozzina di sputacchianti candele si levava nella cappella. Pareva non ci fosse la benché minima ventilazione. Jaspin si sentì quasi asfissiare. Rivolse un’occhiata disperata a Jill, ma lei non sembrava affatto infastidita da quell’atmosfera fetida. I suoi occhi avevano di nuovo quel bagliore. Jaspin era spaventato nel vedere quell’espressione nei suoi occhi.

Senhor Papamacer sedeva a gambe incrociate sul lato opposto dell’autobus. Alla sua sinistra, lungo la parete laterale, c’era la Senhora Aglaibahi, madre divina e dea vivente. Quel vano lungo e stretto era disposto in maniera molto simile alla stanza nella quale il Senhor aveva avuto il colloquio con Jaspin a Chula Vista: il buio, i pesanti tendaggi, le candele, il tappeto verde e rosso, le piccole immagini in legno di Maguali-ga e Chungirà-Lui-Verrà.

Il Senhor fece un minuscolo gesto di saluto con la mano sinistra. I suoi occhi si posarono su Jill. La studiò, senza parlare, per quella che parve un’eternità.

— La donna — disse il Senhor alla fine, rivolto a Jaspin. — È tua moglie?

Jaspin arrossì. — Ah… no. Un’amica.

— Pensavo una moglie. — Il Senhor parve scontento. — Ma viaggiate insieme?

— Come amici — rispose Jaspin inquieto, chiedendosi a cosa mai mirasse. Lanciò un’occhiata verso Jill. Lei pareva partita verso qualche altro mondo.

Il Senhor disse: — Sapete, ho il potere di farvi marito e moglie davanti a tutti gli dèi. Lo farò.

Jaspin si trovò colto di sorpresa. Le sue guance si arrossarono ancora di più. Cosa diavolo era questa storia? Sposarsi? Con Jill?

Rispose con cautela: — Uhm… credo sia meglio che lei ed io rimaniamo soltanto amici, Senhor Papamacer.

— Ah. Ah. — Jaspin percepì un torrente di gelida disapprovazione erompere da dietro i lineamenti senza tempo né espressione del Senhor Papamacer. Da un milione di miglia di distanza il Senhor replicò: — Come vuoi. Ma è bene essere marito e moglie.

Un altro gesto appena appena percettibile, questa volta verso la silenziosa Senhora Aglaibahi. Lo sguardo di Jaspin seguì la mano del Senhor. La Senhora Aglaibahi sedeva senza muoversi, dando l’impressione di respirare appena appena. Pareva una statua in un tempio, imponente, un enorme oggetto fatto di pietra nera lucidata, una di quelle dee indù, pensò Jaspin, tutte mammelle e occhi. Indossava un indumento bianco, qualcosa di vagamente mussulmano, simile a un sari, avvolto intorno al suo corpo in maniera tale da far vedere con chiarezza i globi ballonzolanti dei suoi seni, le pieghe morbide del ventre. La sua pelle nera luccicava al riflesso della candele come se fosse stata oliata. Anche dopo una settimana fra quella gente la Senhora rimaneva un mistero per Jaspin, una donna adorabile e voluttuosa che avrebbe potuto avere trent’anni o altrettanto facilmente cinquanta. La mitologia dei tumbondé la proclamava vergine, ma c’era qualcos’altro nei loro insegnamenti circa la capacità degli dèi e delle dee di ripristinare la propria verginità tutte le volte che lo desideravano, e Jaspin dubitava parecchio che il Senhor e la Senhora vivessero insieme nella castità. Mentre la fissava, la Senhora sorrise. Jaspin immaginò se stesso attirato d’un tratto verso quei seni dai capezzoli scuri, e che gli venisse dato il latte dalla Senhora Aglaibahi.

Inaspettatamente, da lasciare stupefatti, Jill dichiarò: — Sarò sua moglie se questo è il tuo desiderio, Senhor Papamacer.

— Ehi, aspetta un…

— È una buona cosa, sì, essere marito e moglie. Non lo vuoi, Jaspin?

Jaspin esitò e non rispose. Gli pareva di essere caduto sopra la pista d’un rullo compressore sfuggito al controllo del suo guidatore. Sposare Jill era l’ultima cosa che poteva aver avuto in mente quand’era entrato in quell’autobus cinque minuti prima.