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— Rimettiamoci in carreggiata! — urlò Bill Waldstein. — Elszabet, per favore, vuoi permettere che ci spostiamo su qualcosa di più razionale? Abbiamo qui dei rappresentanti di San Diego e di San Francisco che vogliono dirci cosa succede nei loro Centri, e… Elszabet? Elszabet? Non ti senti bene?

Lei lottò per capire cosa lui le stesse dicendo. La sua mente era piena di nebbia grigia. Figure cristalline si muovevano graziosamente avanti e indietro, presentandosi a lei, invitandola a incomprensibili avvenimenti sociali, lo splendore di quattro valli, una risintonizzazione sensoria… Ci saranno tutti, cara Elszabet. Il tuo poeta presenterà la sua ultimissima creazione, sai. E c’è la speranza di un’altra aurora verde, la seconda quest’anno, e poi non si ripeterà più per altri quindici cicli tonali, così…

— Elszabet. Elszabet.

— Credo che mi piacerebbe assistere allo splendore delle quattro valli — lei disse. — E forse alla sinfonia del cataclisma. Ma non alla risintonizzazione sensoria, credo. Non ci saranno problemi, se salto la risintonizzazione sensoria?

— Di cosa sta parlando?

Elszabet sorrise. Guardò dall’uno all’altro, Dan, Bill, Dante, Naresh, Dave Paolucci, Leo Kresh. Una luce verde si sprigionava avvampante dal centro del gigantesco tavolo di legno di sequoia. Va tutto bene, avrebbe voluto dire. Sono uscita di senno, è tutto. Ma non dovete preoccuparvi per me. Non è insolito, oggi, che la gente esca di senno.

— Non stai bene, Elszabet?

Dan Robinson. In piedi accanto a lei, che le teneva la mano leggermente appoggiata sulla spalla.

— No — rispose. — In effetti non sto affatto bene. È già tutta la mattina che non mi sento bene, credo. Volete scusarmi, tutti? Mi spiace moltissimo, ma credo che farei meglio a distendermi. Volete scusarmi? Sì? Grazie. Grazie. Mi spiace moltissimo. Per favore, non interrompete la seduta. Ma credo proprio che dovrei distendermi.

5

Ferguson disse: — Cosa ti hanno detto? Non c’è nessun problema. Te la squagli attraverso la foresta e continui verso oriente, e presto o tardi t’imbatti nella civiltà.

— Hai nessuna idea di dove ci troviamo? — gli chiese Alleluia.

— Sulla strada per Ukiah.

— Ukiah? Dove si trova?

— A est di Mendo, forse a trenta miglia dalla costa. Te lo sei dimenticata? Te l’hanno mondato?

— Non conosco questa parte della California — rispose lei. — Ci faremo trenta miglia a piedi, Ed?

Lui la guardò. — Tu sei una superdonna, non è vero? Cosa c’è mai di tanto difficile in trenta miglia a piedi? Un po’ meno di trenta, forse. Al massimo ce la faremo in due giorni. Non pensi di riuscirci?

— Non io. Tu… Sei in forma per un’escursione come questa?

Ferguson scoppiò a ridere e sfregò la mano sulla pelle immacolata dell’avambraccio di lei. — Non preoccuparti per me, bimba. Sono in forma fantastica, per un uomo della mia età. Comunque, se dovessi sentirmi stanco, potremo sempre fermarci per un paio d’ore. Nessuno c’inseguirà in questo posto.

— Ne sei sicuro?

— Certo che ne sono sicuro — ribadì lui. Sorrise. — Pensa — aggiunse poi, — niente mondata, domattina. Niente più strapazzate al cervello. Vivremo tutta una dannata giornata ricordandoci tutto quello che è accaduto il giorno prima.

— E anche quello che abbiamo sognato la notte prima?

— Quello che abbiamo sognato, già. — Il sorriso, che era sfumato lentamente sulle sue labbra, diventò un aggrottare di sopracciglia. — Tu, hai sognato stanotte? Un sogno spaziale?

— Credo di sì.

— Li fai praticamente ogni notte.

— Davvero? — lei disse.

— È quello che mi dici ogni mattina, prima della mondata. Mi sono segnato tutto, proprio qui, sul mio piccolo anello. Un pianeta diverso ogni notte, i nove soli, il mondo verde, quello dove tutto il cielo è pieno di stelle. Questa notte è stata la grande stella azzurra nel cielo e le bolle luccicanti che galleggiavano nell’aria.

— Non ricordo — dichiarò Alleluia.

— Be’, a volte te ne ricordi, a volte no.

— E tu? Tu non sogni mai, vero?

— Mai una volta — confermò, e cominciò a sentire l’amarezza che cresceva in lui. — Tutti li fanno, al di fuori di me. Non so. Vorrei poter vedere questi posti almeno una volta. Vorrei sapere cosa succede nella mente di tutti. Mi sono segnato sul mio anello che la prima cosa che devo chiedermi alla mattina è se ho fatto un sogno spaziale. E non l’ho mai fatto. Cristo, odio non provare quello che provano gli altri.

— Dovresti provare ad essere artificiale per un po’, allora. Capiresti cosa vuol dire essere davvero diversi.

— Già. Sicuro. Proprio quello che mi serve. — Ferguson sorrise di nuovo. — Oh, insomma: per lo meno domattina non sarò mondato. Non mi ficcheranno quei loro stramaledetti bisturi elettronici in testa. Forse, due o tre giorni lontano da quei bastardi, e comincerò a sognare anch’io, non credi? Cosa ne pensi, Allie?

— Il guaio, con te — lei rispose, — è che lo vuoi troppo. Devi smetterla di volerlo, se vuoi sperare di riuscire ad averlo. Lo capisci, Ed?

— Lo fai sembrare così semplice.

— Un mucchio di cose difficili sono semplici.

— Dimenticatene — lui la rimbrottò. — Posso vivere senza quei dannati sogni. Sono contento di essere lontano da quel posto, e basta.

— Anch’io — lei gli fece eco. E diede una strizzata al suo avambraccio che avrebbe dovuto essere gioiosa e affettuosa. Lui provò una fitta talmente dolorosa che per un istante si chiese se lei non gli avesse rotto il braccio.

Adesso, avevano lasciato il Centro da tre ore. Era pomeriggio avanzato e mancavano ancora un paio d’ore prima del tramonto. L’aria era ancora calda anche se già manifestava i primi segni dell’incombente fresco della sera. Erano nel folto della foresta di sequoie, sotto i loro piedi il terreno era umido e morbido perfino dopo i lunghi mesi di siccità estiva. Gli scoiattoli scorrevano dappertutto, e di tanto in tanto un cerbiatto timido e circospetto li sbirciava da dietro uno di quegli alberi giganteschi.

Scappare era stato facile, proprio come Ferguson si era aspettato. Dopo il pranzo, durante il tempo libero, si erano in tutta semplicità allontanati nei boschi sul lato del Centro rivolto all’entroterra. Niente d’insolito, in questo. Bastava continuare ad allontanarsi: quella era la parte insolita. Una sosta nella sua piccola radura favorita, quella che usava per fottere, dove aveva raccolto lo zaino di tela che vi aveva nascosto il giorno prima. Aveva riempito lo zaino di pane, mele, alcuni spremibarattoli di succo, e aveva registrato un appunto molto dettagliato in proposito nel suo anello, dicendo al se stesso del dopo mondata dove l’avrebbe esattamente trovato il giorno dopo. Cristo, se ci si sentiva bene ad esser liberi! Finalmente fuori dalla galera. Bene, il Centro non era proprio una prigione, era più simile a un collegio rigoroso, pensò Ferguson, ma lui non era mai stato molto portato neppure per i collegi. O per qualunque altro posto in cui la gente potesse dirgli quello che avrebbe dovuto fare per dodici, sedici ore al giorno.

Aveva una specie di piano. Prima di tutto raggiungere Ukiah: quella era una cittadina di discrete dimensioni, gli diceva il suo registratore, trenta, quarantamila persone. Una vera e propria metropoli, in quei giorni post Guerra della Polvere, dove i bambini erano pochi e molto sparpagliati e la popolazione era scesa di molto, dell’ottantacinque per cento rispetto ai culmini del ventesimo secolo. A volte Ferguson cercava d’immaginarsi il mondo con dentro tutta quella gente, cinque o sei milioni nella sola Los Angeles, e ancora di più a New York. Dicevano che Mexico City ne avesse avuto sedici milioni. Ci avreste mai creduto? Adesso non c’era nessuno a Mexico City, zero, nada, tutti erano scappati quando i «nica» avevano spolverato quel posto. E forse un milione a Los Angeles, se si considerava ogni cittadina da Santa Barbara fino a Newport Beach come parte di Los Angeles. Bene. Così, stiamo andando a Ukiah, pensò; ci troviamo un motel, ci diamo una ripulita, ci rimettiamo in sesto e ci riorganizziamo. Poi telefonerò a Lacy e mi farò mandare un po’ di quattrini da San Fran con un vaglia telegrafico. Sperava che Lacy avesse abbastanza liquido da fargli un prestito. Cristo sa, se non si è fatta un bel mucchio quando lavorava per me: devono essergliene rimasti abbastanza da darmene un po’. Lui non aveva neppure uno spicciolo, addosso, naturalmente. Al Centro non ce n’era affatto bisogno, e non v’incoraggiavano a tenerne a portata di mano; quando si godeva del permesso per un fine settimana esterno, aprivano semplicemente una linea di credito nel posto in cui si soggiornava e in quello in cui si andava a mangiare. Non volevano che i loro pazienti si spingessero fuori della loro portata.