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Il sacerdote fece una pausa e le lanciò una rapida occhiata in tralice, furtiva, preoccupata. Poi, senza guardarla, aggiunse con voce bassa, angosciata e piena di vergogna: — C’è una cosa, però. Tu sai che dicono che siamo fatti a Sua immagine. Non è così. Non assomiglia per niente a noi. So che quello che ho visto era Dio: ne sono convinto, come sono convinto che Gesù è il mio Salvatore. Ma non assomiglia per niente a noi.

— A cosa assomiglia, allora?

— Non so neppure da che parte cominciare. È la parte che non oso condividere, neppure con te. Ma sembrava… non… umano. Splendido, magnifico, ma… non… umano.

Elszabet non aveva la minima idea di come avrebbe dovuto rispondere. Ancora una volta gli rivolse il suo sorriso professionale, caldo, incoraggiante.

Lui riprese: — Ho bisogno di conservare quella visione, Elszabet. È la cosa per la quale ho pregato tutta la mia vita. La presenza del divino che illumini il mio spirito. Come posso rinunciarci, adesso che l’ho provato?

— Lei ha bisogno di affidarsi al mondatore, Padre. Il mondatore la guarirà. Lei lo sa.

— Io lo so, sì. Ma la visione… quei nove soli…

— Forse rimarrà con lei anche dopo la mondata.

— E se così non fosse? — Si aggrondò. — Credo di volermi ritirare dalla cura.

— Sa che non è possibile.

— La visione…

— Se dovesse perderla, allora le sarà certamente concessa di nuovo. Se Dio si è rivelato a lei stanotte, crede davvero che dopo l’abbandonerà? Davvero lo crede? Tornerà. Ciò che si è aperto davanti a lei questa notte appena trascorsa, si aprirà di nuovo per lei. Quei nove soli… il Padre sul Suo Trono…

— Oh, lo pensi davvero, Elszabet?

— Ne sono sicura.

— Spero che tu abbia ragione.

— Si fidi di me — lei disse. — Si fidi di Dio, Padre.

— Sì.

— Su, adesso. Possiamo rientrare?

Il prete pareva trasfigurato. — Si, certo.

— Posso mandarle Lansford?

— Naturalmente. — Le lacrime gli colavano a rivoli lungo le guance. Non l’aveva mai visto animato in quel modo, cosi vivo e vigoroso.

Nella capanna B Lansford aveva predisposto il mondamente per Ed Ferguson, il quale pareva seccato per il ritardo. — Tu vai dal Padre — disse Elszabet a Lansford. — Mi occuperò io del signor Ferguson. — Il tecnico annuì. Ferguson, un uomo sui cinquant’anni dal volto gelido, il quale era stato condannato a causa d’una truffa enorme e assurda in campo immobiliare prima di venir mandato al Centro di Nepenthe, cominciò a parlarle d’un salto che voleva fare fino a Mendocino quel fine settimana per incontrare una donna che aveva sbaccellato fin lì da San Francisco per vederlo, ma Elszabet l’ascoltò soltanto con mezzo orecchio. La sua mente era piena della visione di Padre Christie. Com’era diventato radioso quel povero prete incapace e incompetente mentre le raccontava quella storia! Non c’era da meravigliarsi che stamattina temesse di mettersi sotto il mondamente, di perdere quel singolo frammento di grazia divina, per quanto bizzarro e ingarbugliato potesse essere, che gli era stato accordato.

Quando Elszabet ebbe terminato con Ferguson ed ebbe dato un’occhiata dentro la terza capanna, dove Alleluia, la donna sintetica, veniva curata, tornò in tutta fretta alla capanna A. Padre Christie era seduto ritto sul letto. Sorrideva in quella maniera amabile e confusa caratteristica di qualcuno la cui mente era stata appena svuotata di un esercito di ricordi. Donna, l’infermiera al recupero, incaricata del turno del mattino, era con lui, intenta a sottoporlo alle solite routine fondamentali di richiamo: accertarsi che conoscesse ancora il suo nome, l’anno, dove si trovava e perché. Il mondatore avrebbe dovuto eliminare soltanto i ricordi a breve termine, ma poteva raschiare più in profondità, a volte molto più in profondità. Elszabet annuì rivolta alla donna più giovane. — Va bene — disse. — Adesso me ne occupo io, grazie. — Era sorpresa dalla forza con cui le batteva il cuore. Quando Donna se ne fu andata, Elszabet si sedette accanto al prete e gli tastò quasi distrattamente il polso con la mano. — Bene, come va adesso, Padre? — gli chiese. — Ha un bell’aspetto rilassato.

— Oh, sì, Elizabeth. Molto rilassato.

— Elszabet — gli ricordò lei con dolcezza.

— Ah. Certo.

Elszabet si sporse di più verso di lui, che cercava di sbirciarle il davanti del reggipetto. Buon per lui, lei pensò. — Mi dica — azzardò. — Ha mai fatto un sogno nel quale ha visto nove soli nel cielo, tutti allo stesso tempo?

— Nove soli? — chiese lui, senza espressione. — Nove soli tutti insieme?

3

Quella mattina Jaspin lasciò in ritardo il suo appartamento a San Diego. Non era insolito per lui. Quando finalmente ebbe messo in moto, si lanciò lungo la superstrada fino allo svincolo di Chula Vista, girò verso l’entroterra, prese la deviazione della Otay Valley in direzione delle strade incontrollate della contea. Venti minuti più tardi, mentre attraversava un altopiano arido e arroventato, arrivò al blocco stradale messo su dai tumbondé.

Avevano sbarrato completamente la strada, il che era assolutamente illegale, ma era assai improbabile che qualcuno della contea di San Diego andasse a dire ai tumbondé cosa dovevano fare. Una barriera energetica attraversava l’autostrada da un lato all’altro, e sei o sette uomini dalla pelle color bronzo e l’aspetto cupo, i volti dagli ampi zigomi, erano in piedi dietro ad essa a braccia conserte. Indossavano costumi tumbondé, giacche d’argento, gambali neri, attillati, con fregi rossi, ampi sombrero neri, ciondoli a forma di mezzaluna appesi all’altezza del petto. Sembrava anche che portassero delle maschere, ma non era così: quelle erano semplicemente le loro facce, remote, impassibili. Nessuno di loro pareva minimamente interessato al gringo dalla pelle pallida a bordo di quella vecchia auto malandata. Ma Jaspin conosceva la routine. Si sporse fuori e disse: — Chungirà-Lui-Verrà, Lui-Verrà.

— Maguali-ga, Maguali-ga — rispose uno dei tumbondé.

— Senhor Papamacer insegna, Senhora Aglaibahi è nostra madre, Rei Ceupassear regna.

— Maguali-ga, Maguali-ga.

Finora se la stava cavando bene. — Chungirà-Lui-Verrà, Lui-Verrà — disse Jaspin una seconda volta.

— Il parcheggio è a due chilometri — disse in tono indifferente uno dei tumbondé. — Poi cammina cinquecento metri. Meglio che tu corra: la processione sta già per cominciare.

— Maguali-ga, Maguali-ga — disse Jaspin, mentre la barriera si spegneva. Passò davanti alle guardie impassibili e infilò la strada butterata e polverosa fino a quando non vide dei ragazzini che gl’indicavano il parcheggio con grandi sventolii di braccia. Lì c’erano almeno un migliaio di auto, per la maggior parte ancora più vecchie della sua. Trovò un cantuccio sotto una gigantesca quercia, lasciò là la macchina e si avviò di corsa lungo la strada. Malgrado non fosse ancora mezzogiorno, il calore era intenso. Pareva il calore dell’Arizona, senza la minima umidità, una vera e propria fornace. Cercò d’immaginare cosa si provasse a starsene lì fermi in calzoni neri e sombrero con quel calore sotto il sole di mezzogiorno.

Pochi minuti dopo vide la gente radunata in un caotico vorticare sopra un’altura appena fuori della strada. Erano migliaia, alcuni completamente vestiti da tumbondé, ma per la maggior parte, come lui, rivestiti da comuni abiti borghesi. Innalzavano stendardi, cartelli, piccole immagini di grandi personaggi. Da altoparlanti invisibili arrivava un tambureggiare sordo, lento e incessante. Il suolo tremava. Probabilmente l’avevano collegato, pensò Jaspin: noduli elettrostatici dappertutto, e chip pulsanti sincronizzati. I tumbondé potevano essere primitivi e primordiali, ma non sembravano sdegnare la tecnologia.