Выбрать главу

— Si chiama Tom — spiegò Robinson. — Se ha qualche altro nome, non lo conosciamo. Era insieme ad una banda di grattatori quando abbiamo trovato Ferguson e Alleluia. I grattatori sono scappati, ma Tom è rimasto e ci ha chiesto di portarlo dentro. È a uno stadio molto avanzato, se vuoi la mia opinione: paranoico e schizofrenico è la diagnosi rapida da due dollari. Ma molto gentile, innocuo e affamato.

— Suppongo che possiamo offrirgli un bagno e qualche pasto — disse Elszabet. — Il povero bastardo pezzente. Guarda quegli occhi… guardali! Hanno visto la gloria, non c’è dubbio!

Fece per incamminarsi verso il nuovo venuto, il quale si stava aggirando lì intorno incerto e perplesso. Poi si fermò e guardò di nuovo Robinson. — Ehi, credevo che mi avessi detto che l’elicottero conteneva soltanto sei persone!

Lui le sorrise. — Fammi causa, allora. Ho mentito.

— Tom ha fame — disse il grattatore. — Tom ha freddo. Vi prendete cura di me, qui?

— Ci prenderemo cura di te, sì — lo rassicurò Elszabet. Gli si avvicinò. Com’è strano, pensò. La stranezza pareva irradiarsi da lui come un’aura. Forse era schizofrenico: era, come aveva detto Dan Robinson, una buona diagnosi da due dollari. Di sicuro era un po’ scentrato. Quegli occhi, quei fiammeggianti occhi biblici: gli occhi di un pazzo, certo, oppure gli occhi di un profeta, o entrambe le cose. — Tu sei Tom — gli disse. — Tom cosa?

— Tom o’ Bedlam — lui rispose. — Il povero Tom. Il pazzo Tom.

E sorrise. Perfino il suo sorriso aveva una strana, violenta intensità. Gli porse la mano. — Su, vieni allora, Tom o’ Bedlam — disse. — Andiamo dentro a darti una ripulita. Va bene?

— Tom è sporco. Tom ha freddo.

— Non per molto — lei disse. Lo prese per il polso. Mentre lo toccava, avvertì una curiosa sensazione, come se qualcosa si stesse contorcendo e agitando nel fondo della sua mente; e per un istante pensò che l’allucinazione del Mondo Verde l’avrebbe riposseduta lì, subito. Ma questa svanì con la stessa rapidità con cui era venuta. Ancora una volta Tom sorrise. Gli sguardi s’incontrarono e qualcosa, non aveva nessuna idea di cosa fosse, passò fra loro in quell’attimo, un silenzioso trasferimento di forze, di energie. Credo che forse, qui, abbiamo qualcosa di speciale, si disse Elszabet. Ma cosa? Cosa?

4

La mattina dopo Tom si svegliò un po’ prima del sorgere del sole, come faceva di solito. Ma per un momento rimase disorientato: non riusciva a vedere il cielo dell’alba, il nero che sfumava nell’azzurro sopra la sua testa e le ultime stelle che ardevano ancora fievoli. Adesso, tutto quello che riusciva a distinguere sopra di lui era il buio, e sotto il proprio corpo sentì l’inusitata morbidezza di un letto… e si chiese dove mai si trovasse e ciò che gli era successo.

Poi ricordò. Quel posto chiamato il Centro. La donna chiamata Elszabet, che la sera prima l’aveva condotto fino alla piccola capanna di legno ai margini del bosco, dicendogli: — Questo è il posto dove alloggerai, Tom. — Gli aveva mostrato come funzionavano il lavandino e la doccia e gli altri infissi. Ricordava che lei gli aveva anche detto: — Tu pulisciti, intanto. Io tornerò fra mezz’ora più o meno, e ti accompagnerò alla mensa, va bene? — Gli aveva dato perfino degli indumenti puliti. Un paio di jeans, alcune camicie di flanella. Gli stavano a pennello. Ed era tornata a prenderlo per accompagnarlo nel grande edificio in cui servivano da mangiare. Una cena servita su dei piatti, non qualcosa cotto su uno stecco tenuto sopra il fuoco ai bordi di una strada. Adesso ricordava tutto.

Dunque non era stato un sogno. Lui si trovava davvero là. Quel bellissimo posto tranquillo. Si alzò in piedi e uscì fuori sulla piccola veranda. Si era sentito splendidamente… poter dormire di nuovo su un letto, un vero letto d’albergo con i cuscini e le lenzuola pulite e un filo da sonno da stringere in mano nel caso in cui non si avesse sonno, e tutto il resto. Tom non riusciva davvero a ricordare l’ultima volta in cui era stato a letto. No davvero. Mentre era con quei grattatori aveva dormito sui materassi pneumatici che tenevano in fondo al furgone. E ancora prima, quand’era arrivato fin lì dall’Idaho, aveva dormito soprattutto all’aria aperta. Qua e là sotto gli alberi o in piccoli anfratti oscuri oppure direttamente fuori nei campi, e talvolta, ma non spesso, in qualche vecchia casa bruciata in una delle città morte. E prima di allora? Non ne era sicuro. Ma questo non aveva importanza. Adesso lui era là.

Era un buon posto, questo Centro. Qui si sentiva diverso, più in pace, più in comando di se stesso, più vicino al nocciolo interiore del suo essere. Era interessante il modo in cui si sentiva diverso in quel luogo.

Nell’oscurità riusciva a cogliere il profilo indistinto degli edifici, alcune capanne come la sua lì vicino, poi un grande prato spazioso, alcune capanne più piccole, e infine degli edifici più grandi, più in distanza, sulla collina laggiù.

Sollevò lo sguardo verso il cielo, attraverso la nebbia.

Qui le stelle parevano molto vicine alla Terra. Non riusciva a vederle, non più, con lo spuntare del sole ormai imminente. Ma riusciva a sentire la loro splendente presenza, come una serie d’invisibili sfere scintillanti allineate l’una accanto all’altra là sopra. Quello doveva essere un posto molto sacro per avere le stelle così vicine, pensò. Tutti i mondi che aveva visitato tanto spesso nelle sue visioni parevano praticamente alla sua portata: bastava allungare la mano, bastava toccare!

Tom provava tutto un formicolio di reverenziale timore. Quelle meravigliose galassie, quei milioni di milioni di mondi che traboccavano di vita. — Ehi! — gridò. — Ehi, voi poro e voi zygerone. Voi popolo dei thikkummuuru. E voi favolosi kusereen, ehi, ehi! — Il firmamento proclamava la gloria di Dio: il firmamento mostrava la Sua opera. Quale privilegio era stato contemplare tutta quella meraviglia, quella moltitudine di mondi, la pienezza dell’universo! Per quanti miliardi di anni quelle grandi razze erano state padrone delle stelle, edificando le loro civiltà e i loro imperi, collegando mondo a mondo, levandosi attraverso quegli incredibili spazi neri, diventando loro stesse divinità. E lui aveva visto tutto, immagine dopo immagine ogni meraviglia si era riversata dentro il suo stupefatto cervello. Certo, a tutta prima gli era parsa una pura follia. Ma poi aveva cominciato a riconoscere i modelli; eppure anche così c’erano troppe cose da comprendere o perfino da cominciare a comprendere. Era come se quelle parole si fossero riversate tutte insieme dentro la sua mente con il rombo d’una cascata. Ma lui era vissuto con queste cose talmente a lungo che era arrivato a trarne un po’ di senso. Adesso sapeva quali razze dominavano i regni delle stelle, e quali avevano governato nei molti eoni trascorsi. Sapeva quali erano i sudditi obbedienti che aspettavano il tempo della propria grandezza ancora da venire. Era tutto là, nel Libro dei Soli e nel Libro delle Lune, che gli era stato concesso di leggere. Soltanto lui era stato prescelto, e soltanto attraverso lui i popoli dell’universo avrebbero acconsentito a farsi conoscere sulla Terra. Adesso però la notizia si stava diffondendo, e ben presto tutti l’avrebbero saputa; e poi sarebbe giunto il momento per il quale Tom viveva, quando gli stessi popoli della Terra sarebbero partiti verso quei mondi scintillanti, salpando attraverso i golfi dello spazio, per diventare cittadini dell’immenso regno galattico.