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La prima luce dell’alba si affacciò in cielo e le nebbie cominciarono a dissiparsi. Tom sentì recedere e dileguarsi la falange delle galassie. Per un momento là, in piedi sulla veranda, avvertì una terribile fitta di separazione e perdita. Poi la sensazione si allentò e divenne nuovamente calmo. Tornò dentro, si lavò, s’infilò i nuovi jeans, la nuova camicia. Rimase inginocchiato a lungo accanto al proprio letto, in preghiera, per ringraziare il cielo delle benedizioni ricevute. E infine si decise ad uscire per vedere se poteva trovare qualcosa per far colazione.

Non era sicuro di quale fosse l’edificio della mensa. Alla luce del giorno ogni cosa pareva diversa. Mentre andava in giro, s’imbatté nell’uomo con la gamba malconcia, l’uomo chiamato Ed, quello che aveva tentato di fuggire. Anche Ed dava l’impressione di andarsene in giro senza uno scopo preciso. Quella mattina non aveva un gran bell’aspetto. Aveva il volto gonfio e gli occhi rossi e velati, e la bocca storta in un’espressione corrucciata. Si muoveva ondeggiando come se fosse ubriaco. A quell’ora del mattino!

Si fermarono l’uno di fronte all’altro sul sentiero, squadrandosi.

— Ehi — disse Tom. — Ti sei svegliato sul lato sbagliato del letto?

Ed Io fissò in silenzio per un lungo istante. Visto da vicino non pareva ubriaco. Malato, forse, ma non ubriaco. — Chi diavolo sei? — gli chiese alla fine.

— Sono Tom. Ieri ero sull’elicottero con te, quando ci hanno portato qua dentro dall’esterno. Non te lo ricordi?

— Non lo so — rispose Ed. — Non so un accidenti di niente, in questo momento. Sto giusto arrivando dalla mondata. Sai cos’è, no, amico?

— Mondata?

— Sei nuovo, qui?

— Sono arrivato qui ieri sera, con te, sull’elicottero.

— Allora hai un mucchio di cose da imparare. — Ed spostò il peso del corpo, dando sollievo alla gamba che gli faceva male. Era appoggiato a una stampella bianca, di plastica. — La mondata è quando ti applicano degli elettrodi alla testa — spiegò, — e ti fanno lampeggiare una luce negli occhi e ti mandano una specie di sugo nel cervello. Spazza via tutti i tuoi ricordi a breve termine. Ti dimentichi la maggior parte di quello che ti è capitato il giorno prima. Ti dimentichi perfino di quello che hai sognato durante la notte. Ecco quello che ti fanno in questo posto.

Tom chiese: — Ma perché dovrebbero farlo? Dovrebbe essere contro la legge, fare una cosa simile al cervello di qualcuno.

— Lo fanno per guarirti. Per curarti quando pensano che il tuo cervello è confuso. Ecco come ti curano: confondendolo ancora di più. Aspetta. Monderanno anche te, amico… Tom, qualunque sia il tuo nome. Non appena avranno misurato le tue onde cerebrali, si metteranno al lavoro anche su di te.

— Io? No — disse Tom, un po’ innervosito. Quell’uomo lo faceva sentire molto a disagio. Quell’uomo, quell’Ed. C’era qualcosa di sbagliato con lui… dentro di lui. Tom se n’era accorto subito la prima volta, quando Ed era uscito fuori dal bosco, trascinandosi sulle gambe, là sulla piccola autostrada. La sua anima era ferita; il suo spirito era tutto rinchiuso in se stesso, colmo di dolore e di odio. Come Stidge, ecco com’era, un uomo cattivo e amareggiato il quale era convinto che tutti cercassero di fregarlo. Tom gli sorrise, e disse: — Non io. A me non lo faranno.

— Aspetta.

— Non io — ripeté Tom. Rìse. — Il povero Tom, nessuno vuole fare del male a Tom. Tom non fa male a nessuno.

— Sei proprio matto, vero?

— Povero Tom… Tom è matto, sì. Povero Tom. Stupido Tom.

— Cristo, dov’è che ti hanno trovato? — Ed si aggrondò ancora di più. — Hai detto che sei arrivato qui stanotte, con me, sull’elicottero. Da dove? Tanto per cominciare, cosa ci facevo fuori del Centro?

— Hai cercato di scappare — spiegò Tom. — Tu e una donna chiamata Allie. Ti hanno preso.

— Ah — replicò Ed, annuendo. — Ecco cos’è stato.

— Ti hanno riportato dentro in elicottero. Proprio ieri sera. Non te ne ricordi?

— Non una dannata cosa di niente — ribatté Ed. — È proprio quello che ti fanno qui: ti portano via la memoria.

— No — disse Tom. — Non ci credo. Questo posto è un buon posto. Qui non farebbero del male alla mente di nessuno.

— Aspetta, amico. Lo scoprirai.

Tom scrollò le spalle. Non valeva la pena discutere con lui. Era malato in testa, in lui ogni cosa era contorta. Bastava guardarlo per capirlo. Tom provava dispiacere per la gente come lui. Una volta che avremo fatto la Traversata, pensò, tutti verranno davvero guariti dal dolore. Nell’abbraccio del popolo delle stelle, tutti i sofferenti riceveranno finalmente la pace.

— Sai dove posso trovare un po’ di colazione?

— Lassù. Quell’edificio grigio sulla collina, gira sulla destra.

— Molto grato. Tu vai da quella parte?

Ed mostrò un’espressione stomacata. — Mi hanno rimpinzato di droghe ieri sera. La sola idea del cibo mi procura il mal di pancia.

— Allora, ci vediamo — disse Tom. Si diresse verso la collina con passo veloce. L’aria del mattino era fresca e carezzevole, anche se sospettava che più tardi la giornata si sarebbe scaldata parecchio. Mentre si avvicinava al complesso degli edifici a metà strada lungo il fianco della collina, la donna, Elszabet, uscì fuori da uno di questi e lo salutò con la mano.

— Tom?

— Buongiorno, te.

Lei gli si avvicinò. Una donna simpatica, pensò Tom. Non bella in maniera sensazionale quanto Allie, ma naturalmente Allie era artificiale, potevano fabbricarle belle quanto volevano. Ed Elszabet era graziosa. Alta e snella, con le gambe molto lunghe, e un paio di splendidi occhi grigi, meravigliosamente caldi. Ed era anche una persona molto brava, gentile e buona. Si vedeva subito quant’era affettuosa e amorevole, e piena di vita. Lui non aveva conosciuto molta gente di questo tipo, da cui gentilezza e bontà trasparivano chiaramente, al punto di poterle sentire. Anche se c’era qualcosa di chiuso, serrato in lei, come un pugno stretto. Tom avrebbe voluto accedere alla sua anima e aprire quel pugno. Allora, Elszabet sarebbe apparsa ancora più graziosa.

— Vai su a far colazione? — gli disse.

Tom annuì. — È là dentro, giusto?

— Proprio così. Vengo su con te, hai fatto un buon sonno?

— Il migliore da molti mesi… da molti anni, anzi. Un vero sonno profondo.

— Scommetto che era così profondo che non hai neppure sognato.

— Oh, ma sì che ho sognato — rispose Tom. — Sogno sempre.

Lei gli rivolse quel suo piacevole sorriso. — Scommetto che fai dei sogni interessanti, vero?

Tom continuò a camminare al suo fianco senza dire niente. Ricordava che anche la sera prima lei gli aveva detto qualcosa sui sogni, quando lo aveva accompagnato alla sua capanna, dopo cena. Era stata soltanto un’osservazione casuale, qualcosa sul fatto che lei stessa sarebbe andata subito a dormire, perché era stanca, aveva fatto uno strano sogno la notte prima e ne era rimasta scombussolata. Aveva pensato, allora, che lei sperasse che lui le chiedesse maggiori particolari di quel sogno… ma lui non se l’era sentita. Adesso, stava parlando di nuovo dei sogni. Ed entrambe le volte era parsa tesa quando l’argomento era saltato fuori, le sue narici avevano vibrato un po’, le sue guance avevano acquistato una tinta un po’ più carica. Perché mai s’interessavano tanto ai sogni, in quel posto? Ricordava che quell’uomo, Ed, gli aveva parlato della faccenda della mondata. Ti dimentichi perfino di quello che hai sognato la notte prima. Tom cominciò a sentirsi un po’ a disagio.

Qualche istante dopo, Elszabet aggiunse: — Non appena ti è possibile, Tom, vuoi venire nel mio ufficio a fare una chiacchierata? Il mio ufficio è in quell’edificio proprio là in fondo… basterà che tu lo chieda a chiunque, là dentro, e ti diranno dove puoi trovarmi. Vorrei sapere qualcosa di più su cosa è successo ieri con Ed e Alleluia laggiù, oltre la foresta, d’accordo? E ci sono alcune altre cosine di cui mi piacerebbe parlare con te.