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Jill si avvicinò a Jaspin. — Le è di qualche aiuto? — chiese, rivolta a Lacy.

— Stavo giusto raccontando al signor Jaspin l’ironia della cosa, che io lavoravo per un uomo che dirigeva un imbroglio il quale comportava dei viaggi sulle altre stelle. Prima che queste visioni delle stelle cominciassero ad arrivare sulla Terra. L’avrebbero cacciato in prigione, ma lui invece è riuscito a farsi mandare in uno di quei posti per la mondatura della mente, su, vicino a Mendocino, dove dovrebbero trasformarlo in un essere umano decente. Hanno voglia!

— Mia sorella April si trova nello stesso posto — dichiarò Jill. — Nepenthe, si chiama quel posto? Sì, è vicino a Mendocino.

— Tua sorella? — fece Jaspin. — Non sapevo che tu avessi una sorella.

Lacy scoppiò a ridere. — È proprio piccolo il mondo, non è vero? Scommetto che sua sorella e Ed stanno avendo un formidabile e sconvolgente rapporto proprio in questo momento. Ed ha sempre avuto un occhio di riguardo per le donne.

— Non avrà nessun occhio per April — ribatté Jill. — È grassa come un maiale. Lo è sempre stata. E anche molto strana in testa. Sono sicura che il suo amico Ed può trovare assai di meglio che April. — Rivolta a Jaspin, l’informò: — Quando hai finito qui, Barry, vai nell’autobus del Nucleo, eh? Stanno preparando per stanotte il rito delle Sette Galassie e Lagosta vuole che tu gli dia una mano a collegare il generatore polifase.

— D’accordo — annuì Jaspin. — Cinque minuti.

— È stato un piacere incontrarla, signorina… uh… — disse Jill e si allontanò.

— Non è molto amichevole, vero? — commentò Lacy.

— Del tutto sgarbata e cattiva — confermò Jaspin. — In qualche modo la religione l’ha inacidita. È mia moglie.

— Sua moglie?

— Così per dire. Un giorno il Senhor Papamacer ha deciso che avremmo dovuto sposarci. Sull’impulso del momento ci ha sposati… in quattro e quattr’otto, un mese fa o giù di lì. È per i rituali, l’iniziazione, almeno in parte: bisogna essere una coppia. Non è quello che si potrebbe chiamare un matrimonio felice.

— Non mi pare proprio.

Jaspin scrollò le spalle. — Non ha importanza. Una volta che il cancello sarà aperto, vero… Ma fino ad allora… fino ad allora…

— Può esser dura, già.

— Senti — le disse. — Devo andare a dare una mano a metter su le apparecchiature per stanotte. Ma voglio dirti che cercherò di farti avere un’udienza con il Senhor Papamacer. Non sarà facile perché è stato assai poco disponibile in queste ultime settimane. Ma forse riuscirò a farti entrare. Non è soltanto una vanteria. Se potrò farlo, lo farò. Perché so cosa si prova ad essere una creatura mediocre e scialba del ventiduesimo secolo che cerca di farsi strada nella vita a forza di fingere, per poi venir d’un tratto sollevati in alto e scoprire che c’è qualcosa per cui vale la pena di vivere, al di là del proprio merdoso conforto. Come ho detto, abbiamo un mucchio di cose in comune. Cercherò di farti avere quello che mi hai chiesto.

— Lo apprezzerò — disse lei.

Gli porse la mano. Lui la prese e la strinse forte per un attimo di troppo. Dibatté dentro di sé se attirarla o no a sé, così d’impulso, e baciarla. Non lo fece. Ma non c’erano equivoci circa il calore e la gratitudine negli occhi di lei. E le possibilità. Specialmente le possibilità.

SEI

So più di Apollo giacché spesso, quando lui giace dormendo, contemplo le stelle in guerre mortali e il cielo ferito che piange. La luna abbraccia il pastore e la regina dell’amore il suo guerriero, mentre la prima incorna la stella del mattino e l’altra il celeste maniscalco.
Mentre io canto «Un po’ di cibo, qualcosa da mangiare, da mangiare, da bere o da vestire. Vieni, dama o donzella, non aver timore, il povero Tom non farà male a nessuno».
Canto di Tom O’Bedlam

1

Elszabet sentì che un sogno stava per sopraffarla mentre era ancora sveglia. All’inizio, quando ciò accadeva, era stato terrorizzante, allorché i tentacoli dell’irrealtà cominciavano a invadere la sua mente conscia. Ma adesso non più. Troppe cose che un tempo l’avevano terrorizzata, adesso non la terrorizzavano più. Non era sicura se il fatto avrebbe dovuto preoccuparla.

Era distesa sull’amaca che era appesa da una parete all’altra in un angolo della sua cabina. Leggeva un po’, sonnecchiava un po’, non del tutto pronta a coricarsi. Mancava all’incirca un’ora alla mezzanotte d’una fresca serata di autunno, il vento che soffiava dal mare agitava le cime degli alberi. D’un tratto fu conscia che il sogno era là, sospeso subito al di fuori dei cancelli della sua consapevolezza. Giacque là, lasciando che accadesse, dandogli il benvenuto.

Di nuovo il Mondo Verde. Bene. Bene.

A quest’ora aveva fatto anche tutti gli altri sogni, la serie completa dei sette, talvolta due o tre la stessa notte. Era passata una settimana, ormai, da quando il vagabondo del mistero, Tom, era comparso al Centro, e durante tutta quella settimana i sogni le si erano manifestati veloci e fitti. C’era un rapporto? Pareva che dovesse esserci, anche se le era difficile capire in qual modo fosse possibile. Durante la settimana in cui Tom era stato là, Elszabet aveva visto i Nove Soli, aveva visto la Stella Doppia Uno, Due e Tre, aveva visto la Sfera di Luce e la Gigante Azzurra.

Ma fra tutti i sogni, il Mondo Verde era quello che amava di più. Negli altri strani mondi dei sogni lei era soltanto un osservatore incorporeo, un occhio invisibile che galleggiava sopra quel bizzarro paesaggio alieno; ma quando accedeva al Mondo Verde lei partecipava alla vita di quel pianeta, profondamente immersa nella sua ricca e sofisticata cultura. Cominciava a conoscere il luogo e la sua gente; e loro cominciavano a conoscere lei. E così, ogni notte, quando si smarriva nel sonno, Elszabet si trovava a sperare di poter andare ancora una volta in quel luogo adorabile dove sentiva… che Dio l’aiutasse!… dove cominciava a sentirsi così tanto a casa sua.

Ecco che sta arrivando… Mondo Verde, ciao, ciao.

Era come se non fosse mai andata via, come se non fosse mai andata a soggiornare per un po’ in quel luogo incolto e sgraziato chiamato Terra, là dove passava l’altra parte della sua vita. Era il giorno del Doppio Equinozio e le triadi si stavano radunando nella camera-panoramica. Lì c’erano i Misilyne a braccetto, e subito alle loro spalle stavano arrivando i Suminoor, deliziosi ed eleganti, e quelli… quelli non erano forse i Thilineeru? I Thilineeru si erano accoppiati con i Gaarinar, così dicevano le voci pettegole, ed era evidente che i pettegolezzi erano veri, poiché là, poco lontano, c’erano appunto i Gaarinar e la loro superficie luccicava d’una inequivocabile sfumatura thilineeru, un’iridescenza paragonabile al rintocco di tante campane.

E chi era quello? Quella figura scura e intensa con quel singolo occhio ardente che si levava come una gialla cupola fiammeggiante dalla sua ampia testa? Avanzava con passo sereno e tranquillo attraverso la stanza, accompagnato da un ampio seguito, e da ogni lato la gente convergeva verso di lui per presentargli i propri omaggi. Ad Elszabet parve di averlo già visto altre volte. O qualcuno come lui, comunque. Ma non ricordava dove.