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Ah. Adesso lo stavano annunciando: un luccichio argentino, un suono vibrante che danzava nell’aria e diceva a tutti allo stesso tempo che quello era, nientepopodimeno, l’inviato dei Sapiil, Sua Eccellenza Horkanniman-zai, ministro plenipotenziario dell’Impero dei Nove Soli e gran rappresentante del signore Maguali-ga presso tutte le nazioni della sfera esterna. Quale maestosa serie di titoli! Quale personaggio imponente! Elszabet attese il proprio turno per salutarlo. Vieni, le disse Vuruun, il quale era stato lui stesso ambasciatore presso i Nove Soli all’epoca del Presidium Skorioptin di beneamata memoria, lascia che ti presenti. E la fece avanzare fino a quando Sua Eccellenza Horkanniman-zai non la notò. L’inviato dei Sapiil le porse un arto nero e spesso simile a una frusta in segno di saluto, e lei lo toccò con una delle proprie dita cristalline, come aveva visto fare agli altri, e si sentì inondare dalla luce abbacinante dei Nove Soli.

È un dono, disse con voce gentile l’inviato dei Sapiil.

E poi si voltò e si allontanò osservando allegramente, rivolto a uno dei Suminoor, che era la serata più bella da lui mai trascorsa dopo quella dell’anno scorso all’investitura del Gran Delegato kusereen su Vannannimolinan, quando i danzatori poro del cielo gli avevano dedicato d’impulso lo spettacolo d’una intera stagione, e…

Elszabet non sentì il seguito di quella storia. L’inviato dei Sapiil era ormai lontano: le volgeva l’ampia schiena, inquadrato dalla pulsante luce verde della sfaccettata finestra della camera-panoramica che dava a nord. Ma non aveva importanza: c’erano altre distrazioni. I visitatori erano giunti da tutta la Galassia per contemplare il doppio equinozio. Alcuni indossavano i corpi dei loro mondi nativi; altri, non altrettanto compatibili con le condizioni locali, avevano adottato corpi cristallini. La stanza vibrava tutta del cicaleccio di cinquanta imperi. Tre Lame dell’Impero e un Magister, stava dicendo qualcuno. Riuscite a immaginarlo? Tutti nella stessa stanza. E qualcun altro diceva: erano zygerone della Nona, ne sono sicuro. Aveva mai visto una Nona prima? E un sommesso sussurro: Lei è della Dodicesima Poliarchia, sotto la grande stella Ellullimiilu. Sono passati molti anni da quando uno di loro è stato qui. Be’, naturalmente è il Doppio Equinozio, ma anche così…

Da qualche parte in distanza un suono martellante, insistente, fastidioso. Rat-tat-tat, rat-tat-tat.

— Elszabet?

Lei si mosse, si guardò intorno, si rivolse a uno dei Gaarinar per chiedere qualcosa sulla Principessa della Poliarchia, l’essere venuto da Ellullimiilu.

Rat-tat-tat, rat-tat-tat.

— Sono io, Elszabet. Sono Dan. Devo parlarti.

Dan? Dan? Si rizzò a sedere, sbattendo le palpebre, confusa, ancora più che mezza invischiata nelle elaborate sarabande e minuetti della gente del Mondo Verde. Chi mai era Dan? Perché produceva quel rumore? Non sapeva forse che era la notte del Doppio Equinozio e…

Ancora quel bussare. — Stai bene? Senti, se non mi rispondi, entrerò dentro per vedere se non sei…

— Dan? — chiese lei, cercando di scuotersi di dosso la confusione. — Dan, cosa succede? Che ore sono?

— È quasi mezzanotte. Non avevo intenzione d’intromettermi, o niente del genere, ma…

— Va bene. Solo un secondo. — Si sfregò gli occhi. Quasi mezzanotte. Era sull’amaca, un libro in grembo voltato all’ingiù. Si vede che mi sono appisolata. Ho sognato. Il Mondo Verde… il Doppio Equinozio, vero? C’era un ambasciatore, dai Nove Soli, e qualcun altro dalla Gigante Azzurra, e un Nono degli zygerone, qualunque cosa fosse… oh, Dio, Dio.

Il finale sfilacciato di quella visione interrotta le raschiava e le strideva nel cervello. Si portò le mani alle tempie. Il dolore era quasi insopportabile. Essere stata strappata via da tutto ciò in maniera così improvvisa, così brutale…

— Elszabet?

— Sto arrivando — rispose. Ruotò le gambe fuori dall’amaca, per un attimo restò immobile, con i piedi che a stento sfioravano il pavimento, tirò tre profondi respiri, chiedendosi se sarebbe riuscita a mantenersi in equilibrio quando si fosse messa in piedi. Tremava. Essere stata attirata dentro talmente in profondità, trovarsi a tal punto irretita e, sì, dipendente… come una droga, pensò. Come un narcotico. — Aspetta un momento, Dan. Mi sto svegliando lentamente, credo…

— Mi spiace. La tua luce era accesa. Pensavo…

— Va bene. Solo un secondo. — Recuperò l’equilibrio. Gli ultimi fili di quella radiosità verde stavano sbiadendo nella sua mente. Andò infine alla porta. Dan si stagliò sulla soglia, una figura scura contro il buio, gli occhi stralunati, quasi, molto bianchi. Quando entrò, vide che luccicava di sudore, che il suo volto era assai arrossato: una chiara sfumatura rosa-carico sotto la carnagione cioccolata. Non aveva mai pensato che fosse possibile. Non lo aveva mai visto così agitato prima di allora, Dan, sempre gioviale e rilassato. Elszabet chiuse la porta alle sue spalle e cercò qualcosa da offrirgli, un tonico, un drink, qualunque cosa pur di calmarlo. Lui scosse la testa. — Ti spiace se io… — lei gli chiese, mentre la scatola delle fiale le spuntava in mano. Un altro scuotimento di testa. Lei tirò fuori una fiala, il vapore tranquillizzante passò dalle sue narici alla corteccia cerebrale in mezzo microsecondo. Ah… ah. Così andava molto meglio.

— Cos’è successo, Dan?

Dan si era seduto sull’orlo del suo letto. Pareva un uomo che avesse appena fatto una corsa di dieci chilometri e avesse grossi problemi a recuperare il fiato. — Mi sento un po’ sciocco, adesso, ad essermi eccitato tanto — disse. — Mi era parso di dover correre subito qui a dirtelo, è tutto.

Era esasperante, anche se con tutta probabilità non intendeva esserlo. Elszabet replicò comunque, irritata: — Dan, cos’è successo? Hai intenzione di dirmelo oppure no?

Impacciato, Dan replicò: — Finalmente ne ho fatto uno anch’io, proprio adesso. Un sogno spaziale. Il mio primo.

— Adesso capisco perché sei così agitato.

— Dopo che per tutti questi mesi ho cercato di analizzare i dati sull’immaginario degli altri senza avere in effetti la più pallida idea di cosa veramente provassero…

— Oh, Dan, Dan, sono così contenta che ti sia capitato, finalmente…

— Era la Stella Doppia Uno. Ho chiuso gli occhi e, bang! Ero là, sole rosso, sole azzurro, blocco di alabastro. E la grande creatura con le corna sopra di esso. E altre due o tre simili a poca distanza da lì, intente a far qualcosa, come se stessero scavando un pozzo. Ma la chiarezza dell’immagine, Elszabet! L’assoluta convinzione che quella fosse la realtà! Diavolo, non c’è bisogno che te lo dica. Ma non ho potuto fare a meno di sentirmi sopraffatto… tutto questo tempo a chiedermi se l’avrei mai sperimentato, a chiedermi cosa ci fosse di sbagliato in me, perché mai ero bloccato… — Sorrise. — Così, dovevo dirlo a qualcuno. A te. Sono venuto di corsa, e la tua luce era accesa, e… sei seccata, non è vero? Che ti abbia svegliato per qualcosa di tanto banale.

Con voce gentile, Elszabet gli rispose: — È soltanto che ero nel mezzo di un sogno anch’io, sai com’è quando qualcuno ti strappa da un sogno… qualunque sogno.

— Ed era un sogno spaziale?

— Il Mondo Verde. Più ricco e più complesso di quanto l’avessi mai visto prima.

— Mi spiace.

Lei scrollò le spalle. — Sono contenta per te. Sono contenta che tu sia venuto a dirmelo. E non definirlo banale. Qualunque cosa siano questi sogni, non sono banali.

— Perché pensi che finalmente anch’io ne abbia fatto uno stanotte, Elszabet?

— Immagino che fosse venuto finalmente il tuo turno.