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Jaspin trovò un posto ai margini della folla. Molto più avanti, verso la metà del fianco della collina, vide le colossali statue di cartapesta delle divinità che venivano trasportate su lunghe aste da uomini nerboruti coperti di sudore. Jaspin riconobbe ognuna di esse: quello era Prete Noir il Negus, l’altro era il serpente del tuono Narbail, l’altro ancora O Minotauro il Toro, quello era Rei Ceupassear. E quei due, i più grandi di tutti, erano davvero i più importanti: Chungirà-Lui-Verrà e Maguali-ga, gli dèi dello spazio profondo. Jaspin rabbrividì malgrado la vampa del calore. Per quanto sembrasse pazzesco, tutto quell’insieme irradiava un innegabile potere.

Una giovane esile, premuta contro le sue spalle dal resto della folla, si girò di scatto a fissarlo, e disse: — Mi scusi, lei è il dottor Jaspin, vero? Dell’UCLA?

Lui la guardò come se gli avesse morso il braccio. Era sui ventitré, ventiquattro anni, con i capelli biondi, stopposi, una camicetta bianca aperta fino alla cintura. I suoi occhi parevano leggermente vitrei. I marchi di Maguali-ga erano dipinti sui suoi piccoli seni in porpora e arancione. Jaspin non la riconobbe, ma ciò non significava nulla. Si era dimenticato di un mucchio di gente, negli ultimi anni.

Burbero, replicò: — Mi spiace. Persona sbagliata.

— Ero sicura che fosse lei. Ho seguito il suo corso nel novantanove. Mi era parso davvero profondo.

— Non so di cosa stia parlando — lui insisté, con un vacuo sorriso, e si allontanò, aprendosi la strada a gomitate tra la folla. Lei gli fece il segno di Rei Ceupassear, come una specie di benedizione. Il perdono. Vai a farti fottere tu e il tuo perdono, pensò Jaspin. Subito se ne dispiacque, ma continuò a farsi strada, scavando nella folla.

Quello era un brutto periodo nella vita di Jaspin. Per qualche ragione le cose avevano cominciato a sfasciarglisi intorno all’incirca lo stesso anno in cui la ragazza gli aveva detto di aver seguito i suoi corsi, e non era riuscito a capire il perché. Lui aveva trentaquattro anni. C’erano giorni in cui si sentiva tre volte più vecchio: giorni pesanti, che si trascinavano via a fatica, a volte per un mese di fila. L’università l’aveva messo alla porta, a ragione, agli inizi dello ’02. A quell’epoca non era ancora riuscito a cominciare la sua dissertazione: il dottorato che la ragazza bionda gli aveva attribuito esisteva solo nella sua immaginazione. Lui era stato soltanto un professore supplente alla facoltà di antropologia, e non si era reso conto di quale raro privilegio fosse stato a quell’epoca il fatto di avere un lavoro di tutto riposo in una delle poche università ancora rimaste. Se ne rendeva conto adesso, si. Ma adesso lui non era più niente.

— Maguali-ga! Maguali-ga! — stavano gridando da tutti i lati. Jaspin riprese il grido: — Maguali-ga! — Cominciò a muoversi, lasciandosi trascinare in avanti dalla folla, su, verso le enormi statue ondeggianti che sembravano tremolare, luccicanti, al calore. Erano ormai sei mesi che veniva alla processione dei tumbondé; quella era l’ottava alla quale partecipava. Non era interamente sicuro del perché veniva. Sapeva che in parte era dovuto alla curiosità professionale. Ad un certo livello considerava ancora se stesso un antropologo, e qui c’era l’antropologia allo stato crudo e selvaggio, dal vivo, questo apocalittico culto messianico di adoratori degli dèi stellari che era sorto nelle terre spoglie e desolate a est di San Diego. La specialità di Jaspin era stata l’irrazionalità contemporanea: aveva sperato di poter scrivere un libro ponderoso che avrebbe spiegato il mondo moderno a coloro che l’abitavano e dato un po’ di senso al manicomio che la brava gente dello scorso ventesimo secolo aveva lasciato in eredità ai propri discendenti. Tumbondé era la cosa più folle che ci fosse in giro al momento. Jaspin se ne era sentito irresistibilmente attratto, come se, infiltrandosi fra loro, analizzandone il comportamento e riferendo in proposito, avesse potuto in qualche modo riabilitare la sua infranta carriera accademica. Ma c’era molto di più nel fatto che si trovasse lì. Confessava a se stesso di provare una specie di fame, di vuoto spirituale, che sognava di poter placare in quel luogo.

Tuttavia, Dio solo sapeva come.

— Chungirà-Lui-Verrà! — urlò Jaspin, e si aprì a forza la strada tra la folla.

L’eccitazione tutt’intorno a lui era contagiosa. Poteva sentire il battito del polso che accelerava e la gola che gli diventava arida. La gente danzava dove si trovava, con i piedi radicati al suolo, le spalle che si torcevano, le braccia buttate di qua e di là. Vide di nuovo la ragazza bionda a una dozzina di metri di distanza, smarrita in una specie di trance. Maguali-ga, il dio del cancello, era venuto a raccogliere il suo spirito.

C’erano pochi anglo tra la folla. I tumbondé erano sorti dai rifugiati della comunità latino-africana che erano arrivati a frotte nell’area di San Diego dopo la Guerra della Polvere, e la maggior parte di quella gente aveva la pelle scura o completamente nera. Il culto era una sorta di stufato internazionale, un miscuglio di brasiliano e guineano con un sottofondo di haitiano, e naturalmente aveva assunto anche una colorazione messicana. Non era possibile avere un qualunque tipo di culto apocalittico in attività così vicino al confine senza che acquisisse in fretta e furia una sottile colorazione azteca. Ma era di natura più estatica, rispetto alla solita varietà messicana… meno morte e più trasfigurazione.

— Maguali-ga! — rombò una voce tremenda. — Prendimi, Maguali-ga!

Con suo vivissimo stupore, Jaspin si rese conto che la voce era la sua.

D’accordo. D’accordo. Lasciati andare, si disse. D’un tratto provò un gran freddo, nonostante il terrificante calore. Lasciati andare. Sicuro, un bravo ragazzo ebreo di Brentwood, che si mette a saltellare insieme ai pagani shvartzers sul fianco ribollente d’una collina nel mezzo del mese di luglio… be’, perché no, poi? Lasciati andare, ragazzo.

Era abbastanza vicino, adesso, da vedere i capi della processione che si elevavano in maniera impressionante sopra il resto della folla, sulle loro massicce calzature simili a trampoli: c’erano Senhor Papamacer, con la Senhora Aglaibahi al suo fianco, e tutt’intorno a loro c’erano gli undici membri del Nucleo Interno. Una specie di alone di luce solare dorata tremolava tutt’intorno a questi tredici. Jaspin si chiese come realizzassero quel trucco, poiché di un trucco doveva sicuramente trattarsi. Loro dicevano di essere semplicemente dei magneti capaci di attirare l’energia cosmica.

— La forza proviene dalle sette galassie — aveva dichiarato all’inviato del Times il Senhor Papamacer. — È la grande luce che porta l’energia della salvezza. Un tempo ha brillato sull’Egitto e poi sul Tibet, e poi sul luogo degli dèi nello Yucatan. Ed è stata a Gerusalemme e nei sacri templi delle Ande, e adesso si trova qui, il sesto dei Sette Luoghi. Ben presto si trasferirà al Settimo Luogo che è il Polo Nord, quando Maguali-ga aprirà il cancello e Chungirà-Lui-Verrà irromperà nel nostro mondo, portando la ricchezza delle stelle a coloro che lo amano. E quello sarà il momento della fine che sarà il nuovo inizio. — Quel tempo, aveva aggiunto il Senhor Papamacer, non è molto lontano.

Jaspin sentì il belato delle capre impastoiate sopra ogni altro suono. Sentì il muggito basso e lamentoso del bianco toro sacrificale che, come lui sapeva, si trovava nella baracca in cima alla collina.

Adesso vide i danzatori mascherati che si aprivano la strada in mezzo alla folla. Erano sette e rappresentavano le sette galassie benevole. I loro volti erano nascosti da luccicanti scudi metallici e i loro corpi, nudi, erano coperti di ornamenti a forma di soli, lune e pianeti. Sulle loro teste c’erano rosse cupole metalliche lucide come specchi, dalle quali accecanti raggi di luce solare riflessa rimbalzavano come lance. Impugnavano sonagli di zucca e castagnette, e cantavano con furia veemente: