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— Stai bene? — gli chiese Tomás Menendez dal suo lato della stanza.

— Le visioni non smettono — disse Ferguson.

— Vedi Chungirà-Lui-Verrà? Vedi Maguali-ga?

Ferguson scrollò le spalle. — Vedo tutto — esclamò. — È la cosa più stupefacente che mi sia mai capitata.

Dal buio, Nick Doppio Arcobaleno borbottò: — Figlio di puttana, sto cercando di dormire,

— Sto avendo delle visioni — ripeté Ferguson.

— Insomma, vai a farti fottere, tu e le tue visioni.

— È un grande momento — s’intromise Tomás Menendez. — L’apertura del cancello avverrà ben presto. Adesso, devi riempire il tuo cuore di amore, Nick, e lasciare che gli dèi si riversino dentro di te. Come sta facendo Ed. Vedi com’è felice Ed, adesso?

Nove soli avvamparono sullo schermo della mente di Ferguson. Una gigantesca, bizzarra creatura con un singolo occhio brillante in cima alla testa si girò verso di lui, protese le molte braccia e lo chiamò per nome. Poi l’immagine scomparve, e Ferguson vide un diverso paesaggio, un sole bianco nel cielo e uno giallo, e degli esseri ancora più strani che parevano andare in giro a bordo di automobili fatte d’acqua, viaggiavano avanti e indietro, e poi… e poi…

Smetterà mai? si chiese Ferguson. Sempre avanti, una dietro l’altra. Volevi i tuoi sogni spaziali, Ed, ragazzo mio. Bene, adesso hai i sogni spaziali.

La gioia lo invase e le lacrime tornarono ad affiorargli agli occhi. Non aveva mai pianto tanto in vita sua, non più da quando era bambino. Non riusciva a fermarsi, era come una fontana. Ma questo andava bene per lui. Le lacrime gli lavavano l’anima. Piangere gli faceva provare una buona sensazione. Tom aveva toccato qualcosa dentro di lui, in qualche modo Tom l’aveva aperto, e adesso le lacrime scorrevano attraverso di lui come la sglaciazione della primavera, lavando via ogni sorta di antico sudiciume e spazzatura. Dovrebbero vedermi adesso, pensò, che sto singhiozzando così. Tutti quelli che mi hanno conosciuto a Los Angeles non ci crederebbero. Il povero Ed ha perso una rotella. Piange tutto il tempo, e adora farlo. Povero Ed, povero matto Ed.

Giarda, quella è la stella azzurra, è talmente calda che fonde il suolo. La città lucente che galleggia. I risplendenti abitanti simili a fantasmi. Magnifico! Magnifico!

Il suo cuscino era inzuppato di lacrime.

Dio, come si sentiva bene. Piangi quanto vuoi, si disse Ferguson. E poi piangi un po’ di più. Ripulisciti, amico. Qualunque cosa ti stia accadendo, va benissimo. Lascia che accada. Proprio come aveva detto Tom: Soltanto per una volta, lascia andare tutto, lascia che ogni cosa si apra. Lascia che la grazia ti inondi.

Non poteva giacere là, immobile. Si alzò in piedi, fece il giro della stanza, si tenne aggrappato alla porta, all’armadio, al lavello, a qualunque cosa gl’impedisse di cadere. Il mondo ondeggiava tutt’intorno a lui. Roteava, roteava… Sarebbe così facile, pensò, lasciarsi andare, lasciarsi galleggiare nello spazio e andarsene via…

Tomás Menendez era in piedi accanto a lui. — È un momento meraviglioso, no? Gli dèi stanno per giungere. Chungirà-Lui-Verrà arriverà sulla Terra o forse noi andremo da Chungirà, non so quale delle due cose accadrà. Ma cambierà ogni cosa.

— Piantala con questi fottuti discorsi. — La voce di Nick Doppio Arcobaleno.

Ferguson sorrise. — Adesso vedo il sole rosso e quello azzurro, e un ponte di luce che scorre fra essi. Cristo, quel sole rosso occupa la metà del cielo!

— È la visione di Chungirà — disse Menendez. — Vieni, andiamo fuori. Mettiti sotto le stelle. Lascia che Chungirà entri nella tua anima.

— Un muro di pietra, alto e bianco — mormorò Ferguson. — È la cosa che ha visto Lacy. E Alleluia. E adesso anch’io. La creatura dorata con le corna ricurve.

Menendez l’aveva preso per il gomito. Lo condusse lungo il corridoio e giù per i gradini dell’edificio del dormitorio. Ferguson non ci badò. Sarebbe andato dovunque Menendez avesse voluto portarlo. Vedeva soltanto il gigantesco sole rosso che vibrava e pulsava, e quello azzurro accanto ad esso, che gli batteva nella mente come un gong. E l’essere meraviglioso con le corna ricurve, che si sporgeva verso di lui. Che lo chiamava. Un arco di luce avvampante che si stendeva attraverso il firmamento.

Ferguson seguì Menendez fuori dell’edificio. Lievi spruzzi di umidità gli colpirono le guance. L’aria aveva un odore diverso: pulita, fresca, nuova. Ad un certo punto durante la notte era cominciata la stagione delle piogge: una pioggia morbida, delicata, che ticchettava tranquilla. Si era quasi dimenticato di com’era la pioggia, durante tutti quei mesi asciutti. Ma adesso era arrivata, finalmente. Andava benissimo, pensò Ferguson. Resterò qui fuori alla pioggia. Mi pulirò fuori come dentro. Pareva fosse quasi mattina. Ferguson non si sentiva affatto come qualcuno che non aveva dormito. La sua mente era sveglia, attiva, spalancata. La figura cornuta faceva e rifaceva gli stessi movimenti, voltandosi, allungando le mani, sollevando le braccia, girandosi di lato. E tornando a voltarsi.

Ferguson aguzzò lo sguardo davanti a sé. Vide l’edificio degli uffici del personale, gli alberi enormi che si profilavano bui dietro ad esso. Ma tutte quelle cose apparivano nebulose e prive di sostanza, quasi trasparenti. Ciò che aveva vera densità e sostanza era il bianco blocco risplendente e la gigantesca figura sopra di esso. E il sole rosso e quello azzurro. Sollevò il viso verso di essi. La pioggia gli scorse a rivoli lungo la fronte. Non aveva nessuna idea di quanto a lungo fosse rimasto là. Un minuto, un’ora, come poteva dirlo?

Poi la visione svani. Il mondo reale tornò, solido, visibile. Ferguson si guardò intorno, si sentiva un po’ stordito. Era in piedi sulla veranda anteriore dell’edificio con Tomás Menendez al suo fianco. Pioveva appena. Il cielo era grigio ma stava schiarendosi. Una figura con un impermeabile giallo gli scivolò accanto a passo di jogging, diretta verso il lato opposto del Centro. Era Teddy Lansford.

— Cosa c’è, è già l’ora della mondata? — gli gridò Ferguson.

Lansford fece una pausa momentanea, continuando a saltellare sotto la pioggia. — Niente mondata, oggi — disse.

— Stai scherzando?

— Non oggi. Per nessuno. L’ha detto la dottoressa Lewis.

— Perché? — chiese Ferguson, perplesso. — Cosa c’è di tanto speciale, oggi? — Ma Lansford se n’era già andato, schizzando via nella mattinata piovosa. Ferguson si girò di scatto e vide altre figure emergere dal dormitorio, che si affollavano sulla veranda per constatare se stava davvero piovendo, April, Alleluia, un paio d’altri. — Niente mondata oggi! — annunciò Ferguson rivolgendosi a tutti loro. — La mondata fa un giorno di ferie!

— Perché? — chiese April.

— L’ha detto la dottoressa Lewis — le disse Ferguson, con una scrollata di spalle.

Il che li condusse a una eccitata discussione. Ferguson rimase immobile su un lato ascoltando appena. Che quella mattina ci fosse o no la mondata, non aveva importanza per lui. Quello che gli era successo non gli poteva venir sottratto. Se gli avessero mondato le visioni dalla mente, sarebbero subito sopraggiunte nuove visioni. Adesso era fondamentalmente diverso, questo lui lo sapeva. Era cambiato per sempre. Meglio che oggi non ci fosse la mondata, pensò, poiché voleva tempo per pensare, per analizzare ciò che gli era successo ieri, come Tom lo aveva cambiato. Prendendogli le mani, aprendolo alle visioni… Ferguson non voleva perdere tutti quei ricordi. Ma si rendeva conto che non sarebbe stato grave se fosse successo. La cosa importante non consisteva in ciò che era accaduto, ma in chi, lui, era adesso, qualcuno di diverso, profondamente, dalla persona che fino a ieri aveva cavalcato nella sua testa. Si appoggiò alla parete della veranda. Il vento crebbe un po’ d’intensità, soffiando la pioggia verso l’interno, addosso a lui. Non si mosse: gli dava una buona sensazione, la pioggia. Appena all’inizio della stagione, la pioggia non era così fredda…