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Elszabet scostò con la mano la pioggia che le colava dalla fronte e ricacciò indietro un tremito. — Mi riprenderò. Sono un po’ traballante, credo.

— Chi erano?

— Credo fossero i grattatori con cui viaggiava Tom. Lo stavano cercando. Vogliono lasciare la zona prima che passino i tumbondé, e vogliono portare con sé Tom dovunque vanno.

— Sudici bastardi — commentò Dante. — Come se non avessimo già abbastanza problemi da risolvere oggi, ci dovevano capitare anche i grattatori.

— Dobbiamo chiamare la polizia? — chiese Lansford.

Dante scoppiò a ridere. — La polizia? Quale polizia? Qualunque polizia abbia la contea, questa mattina sono giù a Mendo che stanno cercando di controllare la folla dei tumbondé. No, dovremo stare attenti noi stessi a quei tre. Durante il nostro tempo libero. — Guardò Elszabet. — Sei ancora molto scossa, vero?

— Stavo cercando di deviare una visione spaziale. E poi mi sono voltata e c’erano tre estranei con un aspetto da far paura in piedi proprio dietro le mie spalle. Sì, sono ancora scossa.

— Forse questo ti sarà di aiuto — fece Dante. Si avvicinò di più e mise le mani sulla schiena di Elszabet, e cominciò a smuovere un po’ le cose, risistemando le ossa, i muscoli e i legamenti, come se stesse rimescolando dei documenti su una scrivania. Dapprima Elszabet cacciò un rantolo di sorpresa e di dolore, ma poi sentì che la tensione e il dolore l’abbandonavano, e si lasciò andare, oscillando all’indietro contro Dante, permettendo che accadesse. A poco a poco avvertì una sensazione di ritrovato equilibrio. — Ecco — dichiarò Dante, alla fine. — Va un po’ meglio adesso, non è vero?

— Oh, cielo, assolutamente formidabile.

— Rilassare la schiena, rilassa anche la mente. Ehi, hai scoperto dov’erano April e Ferguson?

Elszabet si portò la mano alle labbra. — Oh, Dio. Mi sono dimenticata completamente di loro. Ero diretta al dormitorio quando le visioni hanno cominciato ad afferrarmi, e poi…

D’un tratto la voce di Lew Arcidiacono uscì dal diffusore subito dietro il suo orecchio destro: — Elszabet, credo che stia cominciando adesso. Abbiamo ricevuto la notizia che c’è un intero casino di tumbondé non molto lontani lungo la strada, ed è probabile che puntino proprio nella nostra direzione fra poco.

Elszabet passò alla frequenza A. — Terribile. Come te la cavi con le barriere d’energia?

— Abbiamo una robusta linea di difesa lungo tutta la probabile direzione di avvicinamento. Ma se la marcia dovesse diventare disordinata, potrebbero arrivarci addosso da uno dei Iati rimasti scoperti. Adesso mi farebbe comodo tutto il personale extra che puoi mandare qui da me.

— Bene. Dirò a Dante di venire da te con tutti quelli che ha a disposizione. Rimani in contatto, Lew.

— Cosa sta succedendo? — s’informò Dante.

— Si stanno avvicinando — spiegò Elszabet. — La folla dei tumbondé, proprio in fondo alla strada.

— Allora ci siamo, eh?

— Riusciremo a controllare la situazione. Ma Lew ha chiesto aiuto in prima linea. Prendi con te tutti quelli che sono in palestra e vai subito là, d’accordo? Cercherò Ferguson e April nel dormitorio e vi raggiungerò fra cinque minuti.

— Vado — disse Dante.

Elszabet trovò le forze per esibire un fragile sorriso. — Grazie per il massaggio alla schiena.

L’edificio del dormitorio si trovava a venti passi sulla sua destra. Elszabet corse da quella parte, scivolando e slittando sul sentiero infangato e sull’erba resa viscida dalla pioggia. La tempesta stava contiuamente peggiorando. Mezzo incespicando, Elszabet attraversò la veranda del dormitorio ed entrò nell’edificio con passo pesante, lasciando grandi impronte fangose dietro di sé. — Ehi? — chiamò. — C’è nessuno qui dentro?

Tutto era silenzio. S’inoltrò lungo il corridoio sbirciando dentro questa o quella stanza, le piccole tane dove i suoi infelici pazienti trascorrevano le proprie infelici giornate. Non c’era segno di nessuno, là intorno. All’estremità del corridoio sostò fuori della numero sette, la stanza di Ed Ferguson. Quando appoggiò la mano sulla piastra della porta, sentì uno strano canto sommesso provenire da dentro, sordo, pesante, lento.

April era accovacciata a gambe incrociate nel mezzo della stanza, oscillando con ritmo costante, avanti, indietro, cantando monotona fra sé, singhiozzando un po’. Dietro di lei, mezzo nascosto dal volume di quell’enorme donna, Ed Ferguson sedeva immobile sul pavimento, appoggiato contro uno dei letti, con la testa arrovesciata all’indietro e le braccia che gli penzolavano lungo i fianchi. Pareva drogato.

Elszabet andò prima da April e affondò le dita nella carne molle della sua spalla, cercando di fermare il suo dondolio.

— April, April, sono io, Elszabet. Tutto va bene, non aver paura. Cosa succede, April?

— Niente. Non c’è niente che importi. — Una voce impastata, rauca, carica di emozione. — Sto bene, Elszabet. — Le lacrime le scorrevano sul viso. Non voleva sollevare gli occhi. Adesso, mettendosi ad oscillare con vigore perfino accresciuto, ricominciò a cantare: — Sta piovendo, sta scrosciando, il vecchio sta russando…

La canzone lasciò il posto al ritmico mugolio che avrebbe potuto produrre una donna la quale reggesse tra le braccia un bambino, e poi ad un inintelligibile canticchiare. Ma, per lo meno, April pareva calma… ossia smarrita in qualche suo mondo privato. Elszabet si alzò e si avvicinò a Ferguson. Questi non si muoveva affatto. L’espressione del suo volto era insolita, un’espressione stranamente benigna che alterava completamente la sua normale fisionomia tesa e inacidita; ad una prima e rapida occhiata avrebbe anche potuto non riconoscere in quell’uomo l’arcigno, amareggiato, malinconico Ed Ferguson. Era trasfigurato. I suoi occhi erano spalancati e brillavano di una ineffabile, inenarrabile beatitudine; il volto era rilassato e quasi molle, la bocca allargata in un ampio sorriso che esprimeva la più profonda felicità.

Così straordinaria era quella beatifica espressione sul volto di Ferguson, che ci volle qualche altro istante prima che Elszabet si rendesse conto che i suoi occhi rimanevano aperti senza ammiccare, che non sembrava inspirare.

S’inginocchiò accanto a lui, allarmata. — Ed? — disse, brusca. — Ed, riesci a sentirmi? — Gli mise la mano sul petto, cercando il battito del cuore. Ascoltò per sentire se c’era il lieve soffio del respiro. Gli afferrò il polso freddo e flaccido e cercò come meglio sapeva di percepire le pulsazioni. Niente. Niente del tutto.

Elszabet guardò in direzione di April, la quale oscillava con energia sempre maggiore. Adesso cantava un’altra canzoncina per bambini, che le sembrava quasi familiare, ma la sua voce era così confusa e indistinta che Elszabet non riusciva a capire nessuna delle parole.

— April, cos’è successo a Ed Ferguson?

— A Ed Ferguson — ripeté April, scandendo le sillabe con molta attenzione, come se stesse esaminando quei suoni per capire se potessero avere davvero qualche significato.

— A Ed, sì? voglio sapere cos’è successo a Ed.

— A Ed. A Ed. Oh, Ed — April ridacchiò. — Ha fatto la Traversata. Tom l’ha aiutato a farla. Ci siamo tenuti tutti per mano, e Tom l’ha spedito nel Doppio Regno.

— Tom… cosa?

— È stato molto facile, senza nessuno sforzo. Ed si è semplicemente lasciato andare. Ha abbandonato il corpo, è tutto quello che ha fatto. Ed è partito per il Doppio Regno. Buon Dio, pensò Elszabet.

— Chi era con voi, allora?

— Oh, tutti.

— Chi?

— Be’, c’erano Tom, e Padre Christie, e Tomás… — La voce di April si affievolì, rifugiandosi in un farfugliamento incomprensibile, mentre lei riprendeva a dondolare. All’improvviso April s’immobilizzò e si rivolse a Elszabet, dicendole con voce perfettamente lucida: — Sono molto spaventata, Elszabet. Tom dice che fra poco andremo tutti lassù, sulle stelle… È così, Elszabet? È il momento, ha detto. Adesso ha il completo potere, e ci spedirà tutti uno ad uno proprio come ha fatto con Ed. Suppongo che presto andrò anch’io. È così? Però non so dove andrò. Non so come sarà lassù per me. Non può esser peggio di quanto è stato per me quaggiù, non è vero? Ma anche così, ho paura, Elszabet. — E ricominciò a singhiozzare, e poi riprese ancora una volta a cantare.