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Tom fissò il bosco al di là dei due, e gli parve di vedere Elszabet laggiù.

Che gli sorrideva. Vieni con me, gli aveva detto. Non posso, lui le aveva risposto. D’accordo, come vuoi tu. Povero Tom. Faceva fatica a pensare a lei. Dovunque si trovasse adesso. Sul Mondo Verde, ecco dov’era. Per lo meno, lui le aveva detto di amarla. Per lo meno era riuscito a dirle questo. Vieni con me, era quello che lei gli aveva detto. Quando pensava a questo, a ciò che lei gli aveva detto, gli veniva voglia di piangere. Ma non poteva permetterselo. Oggi non aveva il tempo di piangere. Forse più tardi, adesso c’era troppo lavoro da fare. Scendi là in basso dove c’è tutta quella gente, toccala, aiutala ad andarsene. Elszabet brillava nella sua mente con lo splendore d’un nuovo sole. Vieni con me, vieni con me, non posso, non posso, aveva detto lui. Scosse la testa.

Charley e Buffalo erano ancora là, immobili, che lo fissavano.

— Hai davvero intenzione di restare? — gli chiese ancora una volta Charley.

— Soltanto qualche ora ancora — rispose di nuovo Tom, con voce sommessa. — Poi, forse, vi raggiungerò. Tu vai a cercare il furgone, d’accordo, Charley? Vai a cercare il furgone.

10

A Dan Robinson pareva di aver corso per ore, sempre avanti, a grandi falcate, senza fare nessuno sforzo, il suo cuore pompava come una specie di macchina che non si stancava mai, le gambe lo conducevano senza soste sopra il terreno inzuppato. Sapeva che era la rabbia a permettergli di continuare a correre a quel modo. Ribolliva d’una rabbia così intensa che riusciva a contenerla soltanto grazie alla sua fuga cieca e furiosa in mezzo alla foresta. Una bizzarra follia si era scatenata per il mondo, il Centro in rovina, Elszabet andata… Elszabet andata…

Ecco, metti le mani nelle sue, lei gli aveva detto. Fidati di me e fallo, Dan. Fallo. Metti le mani nelle sue.

Non aveva nessuna idea di dove si trovava. Ormai poteva esser finito sul lato opposto della foresta, o forse aveva soltanto girato in tondo, attraversando e riattraversando il suo sentiero. Qui non c’erano cartelli che indicassero la strada. Una gigantesca sequoia era uguale alla successiva. Il cielo, quel poco che riusciva a distinguere in mezzo alle cime di quegli alberi immensi, adesso era buio. Ma che questo fosse dovuto al fatto che la sera stava arrivando, oppure semplicemente fosse un effetto del peggiorare della tempesta, non avrebbe saputo dirlo.

Sapeva che non sarebbe riuscito a correre ancora per molto. Ma aveva paura di fermarsi. Se si fosse fermato, avrebbe dovuto pensare. E c’erano troppe cose a cui non voleva pensare in quel momento.

Tom ci manderà sul Mondo Verde, aveva detto Elszabet. Tu ed io. Ci andremo insieme. Lei era parsa così calma, così sicura di sé. Questa era la parte peggiore della cosa, la sua calma. Riusciva ancora a sentirla mentre diceva: Adesso voglio andarmene, e iniziare una seconda volta da qualche altra parte. Non ha forse senso tutto questo? Tom ci manderà sul Mondo Verde. In quel momento Elszabet era stata al di là della sua portata. Vedendola così, era stato prossimo a cedere. Tutto quello che aveva potuto fare era stato voltarle le spalle e fuggire di corsa; e non aveva ancora smesso di correre.

D’un tratto vi fu un suono improvviso nella sua mente, simile al lontano rombo del mare. Raggi guizzanti di luce verde danzavano nelle profondità della sua mente. Dunque non c’era modo di sfuggire alle visioni, neppure là fuori. Era ancora contagiato da quella follia collettiva.

No, pensò. Esci dalla mia testa!

Tom ci spedirà sul Mondo Verde, gli aveva detto Elszabet. Tu ed io. Robinson si chiese se sarebbe stato in grado d’impedirle di farlo, se fosse rimasto al suo fianco. Se avesse cercato di ragionare con lei. Se l’avesse trascinata lontano da Tom con la forza, se fosse stato necessario. No, dannazione, non avrebbe potuto fare niente del genere. Lei aveva deciso. Aveva ceduto completamente. Forse, pensò, era stato vedere la folla che distruggeva il Centro a farle perdere la ragione. Avrebbe voluto prenderla per le spalle e scuoterla. Dirle che era una follia suicida, consegnarsi a qualunque potere Tom avesse… mettere le sue mani in quelle di lui, e crollare al suolo morta con quel dannato sorriso di beatitudine sul volto.

Il rumore del mare divenne più intenso: una risacca che si schiantava sulle rocce. L’aria stava diventando pesante intorno a lui, una spessa coltre verde: udì una musica lontana, un debole suono tintinnante, come di tanti aghi d’argento.

Sentì la punta di una scarpa urtare contro la serpeggiante radice affiorante d’una colossale sequoia. Barcollò, roteò su se stesso e si trovò scagliato contro il suolo. Lottando per recuperare l’equilibrio, sventolando le braccia mentre scivolava e incespicava, la cosa migliore che poté fare fu di abbassare la testa contro il petto cercando di rotolare accompagnando la caduta… quando gli mancarono i piedi di sotto e atterrò duramente sulla spalla e il fianco sinistro.

Per qualche istante giacque là, stordito, bocconi, le braccia allargate lontano dal corpo, la guancia in una pozzanghera gelida. Non fece nessun tentativo per rialzarsi. Adesso per la prima volta avvertiva la fatica dovuta alla lunga corsa in mezzo alla pioggia: brividi, spasmi muscolari, ondate di nausea. La luce verde divenne più brillante nella sua mente. Non era in grado di far niente per tener lontana quella visione che si stava precipitando su di lui come una cascata. Il cielo verde, la nebbia lanosa, quella musica complicata, quegli splendenti padiglioni…

— Esci dalla mia testa… - Era un suono aspro, disperato, mentre picchiava i pugni contro il suolo inzuppato di pioggia.

Vide le figure cristalline muoversi delicate in mezzo a quel verde, impeccabile panorama. I lunghi corpi sottili, gli smaglianti occhi sfaccettati, gli esili arti luminosi come specchi. Quei prìncipi e duchi, quei signori e quelle signore. Dan ricordò quant’era stato smanioso di fare il suo primo sogno spaziale, quanto aveva agognato che quelle visioni gli invadessero la mente… e quanta eccitazione aveva provato quando finalmente una di queste gli si era manifestata. Era corso nella capanna di Elszabet, nel colmo della notte, come uno scolaretto, per dirle tutto del sogno. E adesso voleva soltanto sbarazzarsene. Per favore, pensò: vattene via. Per favore, vattene via.

Gli stavano parlando, gli stavano dicendo i loro nomi… siamo la Triade Misyline, stavano dicendo. E noi siamo i Suminoor, e noi siamo i Gaarinar, e noi…

— No - disse Dan Robinson. — Non voglio sapere niente di voi. Chiunque voi siate… Voi siete fantasmi, allucinazioni.

Noi ti amiamo, gli stavano dicendo. Quel bisbiglio arcano che gli echeggiava nella mente.

Lui non voleva il loro amore. Soffocava di rabbia e di disperazione.

Qualcuno che tu conosci si trova fra noi, dicevano.

— Non me ne importa — lui ribatté, quasi irritato.

Lei vuole parlarti, gli dicevano.

Giacque là, in silenzio, freddo, umido, intorpidito… smarrito. Ma poi cominciò a udire un tipo diverso di musica, più ricca, più profonda, più permeata di calore, e una nuova voce, delicata e tintinnante e argentina come la loro, eppure in qualche modo meno aliena delle altre, che chiamava il suo nome attraverso l’immenso golfo dello spazio. Sollevò lo sguardo stupito. Lui conosceva quella voce. Al di là di ogni dubbio, lui conosceva quella voce. Così, lei era arrivata fin là, dopotutto, si disse. Poté sentire la meraviglia sbocciare e crescere in lui. Lei era arrivata davvero lassù. E questo cambia ogni cosa, no? Non osò muoversi. L’aveva sentita sul serio. Di nuovo, pensò. Per favore, di nuovo. E poi la sua voce gli giunse ancora una volta nella mente. Lo chiamava di nuovo. Sì, lui sapeva che era vero. E al suono di quella voce sentì che ogni resistenza cominciava ad abbandonarlo, e la sua rabbia e il suo dolore e la sua paura gli caddero di dosso come un mantello buttato da parte. E si alzò in piedi, chiedendosi se non ci fosse ancora il tempo di trovare Tom da qualche parte là dietro, in mezzo a quella follia, e si incamminò lentamente sotto la pioggia, verso la vivida luce che avvampava davanti a lui nel firmamento.