Khamisi si diresse da quella parte, evitando la pozza fangosa. Mentre incedeva cauto tra alcune canne, veniva guidato dal crescente fetore di carne putrescente. Non gli ci volle molto per immergersi in un folto di cespugli molto fitto e scoprirne la fonte.
Quella femmina di rinoceronte nero doveva pesare sui milletrecento chili, chilo più chilo meno. Un esemplare di taglia mostruosa.
«Buon Dio», esclamò la dottoressa Fairfield, premendosi un fazzoletto sul naso e sulla bocca. «Quando Roberto mi ha indicato i resti dall’elicottero…»
«È sempre peggio quando si è sul campo», commentò Khamisi.
Avanzò fino alla carcassa gonfia. Era riversa sul fianco sinistro. Al loro avvicinarsi, si sollevò una nuvola nera di mosche. L’addome era stato squarciato, gli intestini fuoriuscivano, gonfi di gas. Sembrava impossibile che tutta quella roba avesse mai trovato posto nell’addome. Altri organi erano distesi a terra. Una scia di sangue segnava il percorso di qualche leccornia, trascinata nel folto dei cespugli circostanti.
Le mosche si posarono nuovamente.
Khamisi scavalcò un pezzo di fegato rosicchiato. La zampa posteriore sembrava quasi strappata all’altezza dell’anca. Per fare una cosa del genere ci sarebbero volute mascelle poderose: anche un leone adulto avrebbe fatto una gran fatica.
Khamisi girò attorno al cadavere, fermandosi nei pressi della testa.
Una delle orecchie ispide del rinoceronte era stata strappata con un morso e la gola squarciata selvaggiamente. Gli occhi neri senza vita lo fissavano, troppo grandi, congelati dal terrore. Anche le labbra erano segnate di nero, per il terrore o per l’agonia. Ne sporgeva una grossa lingua, in una pozza di sangue. Ma nulla di tutto ciò era davvero importante.
Sapeva che cosa doveva verificare.
Sopra le narici chiazzate di schiuma c’era un lungo corno ricurvo, prominente e perfetto.
«Non è stato un bracconiere», osservò Khamisi.
In quel caso il corno sarebbe stato portato via. Era il motivo principale per cui le popolazioni di rinoceronti erano ancora in rapido declino. La polvere di corno di rinoceronte si vendeva sui mercati asiatici come presunta cura per la disfunzione erettile, un Viagra omeopatico. Bastava un solo corno per guadagnarsi una somma cospicua.
Khamisi si rialzò.
La dottoressa Fairfield si accovacciò all’altra estremità del cadavere. Aveva indossato i guanti di gomma, appoggiando il fucile al corpo dell’animale. «Non sembra che abbia partorito.»
«Niente cucciolo orfano, quindi.»
La biologa girò attorno alla carcassa, fermandosi di nuovo nei pressi dell’addome. Si chinò e, senza provare il benché minimo ribrezzo, sollevò un lembo della pancia squartata e infilò dentro una mano.
Lui si voltò dall’altra parte.
«Perché la carcassa non è stata ripulita dai mangiatori di carogne?» chiese la dottoressa Fairfield mentre lavorava.
«È un sacco di carne», mormorò Khamisi. Girò attorno alla bestia. Continuava a sentire la pressione del silenzio, che spremeva il calore su di loro.
La donna proseguì il suo esame. «Non penso che sia questo il motivo. Il corpo è qui da ieri sera ed è vicino a una pozza d’acqua. Come minimo gli sciacalli avrebbero dovuto ripulire l’addome.»
Khamisi diede un’altra occhiata alla carcassa. Fissò la zampa posteriore strappata, la gola squarciata. Ad abbattere quel rinoceronte era stato qualcosa di grosso e veloce.
Sentì un formicolio risalirgli fino alla nuca.
Dov’erano i mangiatori di carogne? Prima che potesse riflettere su quel mistero, la dottoressa Fairfield disse: «Il piccolo è sparito».
«Cosa?» Si girò verso di lei. «Credevo che avesse detto che non aveva partorito.»
La dottoressa Fairfield si alzò, sfilandosi i guanti e recuperando il fucile. Quindi si allontanò cauta dalla carcassa, con lo sguardo fisso a terra. Khamisi notò che stava seguendo la scia di sangue di qualcosa che era stato trascinato via dall’addome, per essere mangiato in privato.
La seguì.
Ai margini della boscaglia, la dottoressa usò l’estremità del fucile per farsi strada fra i rami bassi, che rivelarono ciò che era stato trascinato via.
Il piccolo di rinoceronte.
Il corpicino ossuto era stato ridotto a brandelli, come se fosse stato oggetto di una lotta.
«Penso che fosse ancora vivo quando l’hanno squartato», disse la dottoressa Fairfield, indicando uno spruzzo di sangue. «Povera creatura…»
Khamisi fece un passo indietro, ricordando la domanda precedente della biologa. Perché nessun mangiatore di carogne aveva sviscerato i resti? Avvoltoi, sciacalli, iene, persino leoni. La dottoressa Fairfield aveva ragione. Tutta quella carne non sarebbe stata lasciata a mosche e larve.
Non aveva senso. A meno che…
Il cuore di Khamisi si mise a battere forte.
A meno che il predatore non fosse ancora lì.
Khamisi sollevò il fucile. Nel fitto della boscaglia, notò ancora una volta il pesante silenzio. Era come se anche la foresta fosse intimidita dalla creatura misteriosa che aveva ucciso il rinoceronte.
Si ritrovò ad assaggiare l’aria, ascoltando, guardandosi attorno con la massima attenzione, completamente immobile. Attorno a lui, sembrava che le ombre diventassero più scure.
Essendo cresciuto in Sudafrica, Khamisi conosceva bene le superstizioni, le storie sussurrate sui mostri che infestavano la giungla: il ndalawo, un mangiauomini ululante della foresta ugandese; il mbilinto, un ippopotamo grande quanto un elefante delle zone umide del Congo; il mngwa, una creatura furtiva e pelosa dei boschi costieri di palme da cocco.
Ma a volte persino i miti prendevano vita in Africa. Come il nsui-fisi.Era un mostro mangiauomini a strisce, della Rhodesia, a lungo considerato una leggenda dai coloni bianchi… finché, decenni dopo, non si scoprì che era una nuova forma di ghepardo, classificata tassonomicamente come Acinonyx rex.
Mentre Khamisi studiava la giungla, si ricordò di un altro mostro leggendario, noto in tutta l’Africa. Era conosciuto con molti nomi: dubu, lumbwa, kerit, getet.La sola menzione del suo nome suscitava crisi di panico tra i nativi. Grande quanto un gorilla, era un vero e proprio demonio per rapidità, astuzia e ferocia. Nell’arco dei secoli, cacciatori neri e bianchi avevano affermato di averlo intravisto. Tutti i bambini imparavano a riconoscerne il caratteristico ululato. Quella regione di Zululand non era un’eccezione.
« Ukufa…» borbottò Khamisi.
«Hai detto qualcosa?» chiese la dottoressa Fairfield, ancora chinata accanto al piccolo morto.
Era il nome zulù del mostro, un nome sussurrato attorno al fuoco degli accampamenti e alle capanne dei kraal.
Ukufa.
Morte.
Sapeva perché in quel momento gli era venuta in mente una bestia del genere. Cinque mesi prima, un anziano della tribù aveva affermato di aver visto un ukufain quei paraggi. Per metà bestia, per metà fantasma, con occhi di fuoco!aveva inveito l’uomo, con una certezza mortale. Soltanto i coetanei di quell’anziano dalla pelle coriacea lo avevano ascoltato. Gli altri, come Khamisi, avevano finto di prendersi gioco di lui.
Ma laggiù, tra le ombre oscure…
«È meglio che ce ne andiamo», disse Khamisi.
«Ma non sappiamo ancora che cosa l’ha uccisa.»
«Non un bracconiere.» Khamisi non doveva o non voleva sapere nient’altro. Indicò la Jeep col fucile. Avrebbe avvisato il capo guardacaccia via radio e la questione sarebbe stata chiusa, risolta. L’attacco di un predatore, non un caso di bracconaggio. Avrebbero lasciato la carcassa ai mangiatori di carogne. Il ciclo della vita.
La dottoressa Fairfield si alzò con riluttanza.
Alla loro destra, un richiamo prolungato squarciò la giungla ombrosa: uuh-iiii-uuuuu, intercalato da un urlo stridulo e bestiale.
Khamisi si mise a tremare sul posto. Riconobbe l’urlo, non tanto con la testa, ma col midollo spinale. Recava in sé l’eco dei falò di mezzanotte, di storie di terrore e sangue, e di qualcosa di ancora più primordiale, di un tempo prima della parola, quando la vita era solo istinto.
Ukufa.
Morte.
Mentre l’urlo scemava, il silenzio ripiombò pesantemente su di loro.
Khamisi misurò mentalmente la distanza che li separava dalla Jeep. Dovevano battere in ritirata, ma non in preda al panico. Fuggendo impauriti non avrebbero fatto altro che stuzzicare la sete di sangue del predatore.
Nella giungla risuonò un altro urlo ringhiante.
Poi un altro.
E un altro ancora.
Tutti da direzioni diverse. Nell’improvviso silenzio che seguì, Khamisi sapeva che avevano soltanto una possibilità.
«Via!»