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Parte terza

Lo storico

1

Janov Pelorat aveva i capelli bianchi ed il suo viso, quand’era calmo – ma era praticamente sempre calmo – aveva un’espressione vacua. Pelorat era di statura e corporatura medie, tendeva a muoversi sempre senza fretta e parlava con ponderatezza. Dimostrava sempre assai più dei suoi cinquantadue anni.

Non si era mai allontanato da Terminus, cosa alquanto insolita, soprattutto considerata la sua professione. Lui stesso non sapeva dirsi se la sua mania sedentaria fosse dovuta al pallino della storia, o se si fosse espressa nonostante quello.

Quell’hobby gli era venuto all’improvviso, all’età di quindici anni, quando, durante una breve malattia, aveva ricevuto in dono un libro che parlava di antiche leggende. In esso aveva trovato il motivo insistente di un mondo solo ed isolato, un mondo che non si rendeva nemmeno conto del proprio isolamento, perché non aveva mai conosciuto nessun’altra realtà.

La malattia era finita presto, ed in capo a due giorni Pelorat aveva letto il libro tre volte e si era rimesso in piedi.

Poi era andato al suo terminale di computer ed aveva controllato se la Biblioteca Universitaria di Terminus avesse materiale che riguardasse quel tipo di leggende.

Proprio di quel tipo di leggende si era occupato da allora. La Biblioteca Universitaria di Terminus era ben poco fornita riguardo a quell’argomento, ma quando era diventato più grande, Pelorat aveva scoperto le gioie del prestito interbibliotecario. Aveva in suo possesso tabulati ottenuti, tramite segnali iper-radiazionali, da mondi lontani come Ifnia.

Era diventato professore di storia antica. Adesso, trentasette anni dopo aver letto quel libro di leggende, era al suo primo congedo per motivi di ricerca, un congedo che aveva chiesto con l’idea di fare un viaggio nello spazio (il suo primo) fino a Trantor.

Pelorat si rendeva conto che per un abitante di Terminus fosse stranissimo non avere mai viaggiato nello spazio, e certo lui non aveva mai desiderato farsi notare per una bizzarria del genere. Era successo per caso: ogni volta che avrebbe potuto intraprendere un viaggio, si era trovato invischiato in qualche nuovo studio, in qualche nuova analisi, in qualche nuova ricerca. Non aveva mai potuto sopprimere l’esigenza di sviscerare il nuovo argomento e di aggiungere altre informazioni e considerazioni alla montagna di dati raccolti, e così aveva sempre rimandato tutti i viaggi. Il suo unico rimpianto, alla fine, era quello di non avere mai visto Trantor.

Trantor era stata la capitale del Primo Impero Galattico, era stata la sede degli imperatori per dodicimila anni, e prima di allora la capitale di uno dei più importanti regni pre-imperiali, un regno che a poco a poco aveva conquistato od assorbito in qualche modo gli altri, creando le condizioni per la fondazione dell’Impero.

Trantor era un tempo una città che si estendeva su un intero pianeta, una città ricoperta di metallo. Pelorat sapeva com’era dalle opere di Gaal Dornick, che l’aveva visitata all’epoca dello stesso Hari Seldon. Le opere di Dornick non erano più in circolazione, ed il volume che Pelorat possedeva avrebbe potuto essere venduto per una cifra pari a metà di quanto uno storico guadagnasse in un anno. Ma solo l’idea di separarsi da quel libro lo avrebbe fatto inorridire.

Naturalmente a Pelorat interessava Trantor per via della Biblioteca Galattica, che ai tempi dell’Impero (quando si chiamava Biblioteca Imperiale) era stata la più grande della Galassia. Trantor era stata la capitale dell’impero più vasto e popoloso che l’umanità avesse mai conosciuto. I suoi abitanti superavano di parecchio i quaranta miliardi, e la Biblioteca conteneva tutte le opere creative (ed anche un po’ meno creative) dell’umanità, l’intero compendio delle sue conoscenze. Ed era computerizzata in modo talmente complesso, che occorrevano persone esperte per poterla consultare.

Il fatto più interessante era che la Biblioteca esistesse ancora: Pelorat non cessava di stupirsene. Quando Trantor era caduta ed era stata saccheggiata, due secoli e mezzo prima, rovina e distruzione erano state tremende ed i racconti di morti e sofferenze inaudite non si contavano.

Eppure la Biblioteca era rimasta in piedi, difesa (così si diceva) dagli studenti universitari, che avevano usato armi costruite ingegnosamente. (Qualcuno riteneva che la storia della difesa da parte degli studenti fosse completamente romanzata.) In ogni caso, la Biblioteca aveva resistito indenne al periodo di devastazioni. Ebling Mis aveva compiuto il suo lavoro proprio lì, nella Biblioteca, quando per poco non aveva localizzato la Seconda Fondazione (una storia alla quale la gente della Fondazione credeva ancora, ma su cui gli storici avevano sempre sollevato più di una riserva). I tre Darell, Bayta, Toran e Arkady, erano stati tutti su Trantor. Arkady però non aveva visitato la Biblioteca, e dalla sua epoca in poi la storia galattica non aveva fatto mai più cenno a essa.

Da centovent’anni nessun abitante della Fondazione andava su Trantor, ma non c’era motivo di credere che la Biblioteca non esistesse più: che non si fosse più accennato ad essa dimostrava che esistesse ancora. Se fosse stata distrutta, se ne sarebbe certo sentito parlare.

Era una Biblioteca antiquata ed arcaica (lo era già all’epoca di Ebling Mis), ma Pelorat era ben contento che così fosse; si sfregava le mani per la soddisfazione ogni volta che pensava a biblioteche vecchie ed antiquate: più erano antiche, più era probabile trovarvi ciò che cercava lui.

Di notte sognava a volte di entrare nella Biblioteca e di chiedere, preoccupato ed angosciato: «Avete rimodernato? Avete buttato via i vecchi nastri e le vecchie registrazioni?» Ed anziani bibliotecari con gli abiti polverosi rispondevano immancabilmente «È tutto rimasto come è sempre stato, professore».

Ora il sogno si sarebbe avverato, gliel’aveva assicurato il sindaco in persona.

Come avesse saputo del suo lavoro, Pelorat lo ignorava. Non era riuscito a pubblicare granché. Poco di quello che aveva fatto era abbastanza articolato da essere adatto alla pubblicazione, e le cose che erano apparse non avevano lasciato traccia di sé. Si diceva però che Branno la Bronzea sapesse tutto quello che succedeva su Terminus e avesse occhi anche nelle dita dei piedi e delle mani. Pelorat quasi quasi poteva anche crederci, ma se la Branno sapeva da tempo del suo lavoro, come mai non ne aveva capito l’importanza e non aveva dato un contributo finanziario già prima di allora?

In certo modo, pensò con quel po’ di rancore che un tipo tranquillo come lui fosse in grado di serbare, la Fondazione guardava sempre e soltanto al futuro, assorbita dall’idea del Secondo Impero. Non aveva né il tempo, né la voglia di volgere lo sguardo al passato e considerava con irritazione quelli che lo facevano.

Era un atteggiamento stupido, naturalmente, ma Pelorat non poteva da solo sconfiggere la follia di tanti, e forse era meglio così. Poteva coltivare amorevolmente la sua passione e forse un giorno sarebbe stato ricordato come il grande Pioniere dell’Importante.

Ciò significava ovviamente (aveva troppa onestà intellettuale per rifiutarsi di capirlo) che anche lui era assorbito dal pensiero del futuro. In futuro, chissà i suoi meriti sarebbero stati riconosciuti e la sua fama sarebbe stata pari a quella di Hari Seldon. Anzi, lui sarebbe stato più grande di Seldon, perché quest’ultimo aveva soltanto elaborato il quadro articolato di un futuro lungo un millennio, mentre lui avrebbe elaborato il quadro di un passato lungo almeno venticinquemila anni.

Ed adesso era arrivato il giorno chiave, il giorno decisivo.

Il sindaco gli aveva già detto che tale giorno sarebbe stato quello successivo all’apparizione del simulacro di Seldon. Solo per questo Pelorat si era interessato alla crisi di Seldon che per mesi aveva assorbito l’attenzione di tutti su Terminus, e di quasi tutti nella Federazione.