Trevize posò una mano sulla spalla del professore, come per arginare o fermare il diluvio di parole, poi disse forte, per superare il suono della voce dell’altro: — Non è necessaria alcuna precauzione, professore. L’antigravità è l’equivalente della non-inerzia. Quando la velocità cambia non si avverte alcun senso di accelerazione, dal momento che tutto quanto, sulla nave, è sottoposto simultaneamente al cambiamento.
— Volete dire che quando ci allontaneremo dal pianeta e voleremo nello spazio non ce ne renderemo nemmeno conto?
— Proprio così. Anzi, mentre noi stavamo parlando, l’astronave ha decollato. Fra qualche minuto attraverseremo la parte superiore dell’atmosfera, ed entro mezz’ora saremo nello spazio.
3
Pelorat parve farsi piccolo piccolo. Fissò Trevize, ed il suo viso lungo e rettangolare diventò così inespressivo da denunciare un turbamento profondo. Poi girò gli occhi a destra e a sinistra.
A Trevize tornarono in mente le sensazioni che aveva provato durante il suo primo viaggio nello spazio.
Disse, col tono più naturale possibile: — Janov — (era la prima volta che chiamava il professore per nome, ma in questo caso era Trevize l’uomo esperto che si rivolgeva all’inesperto, ed era necessario che fosse lui a far la parte del più vecchio)
— qui siamo perfettamente al sicuro. Ci troviamo nel grembo di metallo di una nave da guerra della Marina della Fondazione. L’incrociatore non è armato, ma dovunque andremo, nella Galassia, il nome della Fondazione basterà a proteggerci. Anche ammesso che ad una nave saltasse il ghiribizzo di attaccarci, riusciremmo ad allontanarci dal suo raggio di azione in un battibaleno. E vi assicuro che so governare la nave alla perfezione: me ne sono reso conto poco fa.
— È il pensiero del... del nulla, Golan... — disse Pelorat.
— Be’, il nulla è tutto intorno a Terminus. Tra chi si trova sulla superficie del pianeta e il nulla sopra di esso c’è solo uno strato di aria tenue e sottile. Noi in questo momento non facciamo altro che superare questo strato insignificante.
— Sarà insignificante, ma ci permette di respirare.
— Respiriamo anche qui. L’aria è più pura e più pulita, sulla nave, e rimarrà sempre più pura e più pulita di quella che si respira su Terminus.
— E le meteoriti?
— Le meteoriti cosa?
— L’atmosfera ci protegge da esse. E in quanto a questo ci protegge anche dalle radiazioni.
Trevize disse: — Sono ventimila anni che l’umanità viaggia nello spazio, e...
— Ventiduemila, se stiamo alla cronologia hallblockiana risulta evidente che, contando...
— Basta, basta, vi prego. Avete mai sentito parlare di incidenti avvenuti a causa di meteoriti, o di morti per radiazioni? Voglio dire, di recente, e per quel che riguarda le navi della Fondazione?
— A dir la verità non ho mai tenuto dietro a questo genere di notizie, però, ragazzo mio, sono uno storico, e...
— Sì, nel corso della storia si sono avuti incidenti del genere, ma la tecnologia fa progressi. Non esiste meteorite abbastanza grande da danneggiarci, e che possa avvicinarsi a noi prima che prendiamo le misure necessarie per evitarla. Quattro meteoriti che simultaneamente provenissero dalle quattro direzioni corrispondenti idealmente ai vertici di un tetraedro potrebbero anche inchiodarci, ma provate a calcolare con che frequenza una cosa simile potrebbe verificarsi. Scoprirete che fate in tempo a morire di vecchiaia un trilione di volte prima di avere la probabilità ragionevole di osservare il fenomeno in questione.
— Insomma, le probabilità di un incidente sono molto scarse se siete voi a far funzionare il computer?
— No — disse Trevize, con dolcezza. — Se facessi funzionare il computer basandomi sui miei sensi e sulle mie reazioni, verremmo colpiti prima ancora di rendercene conto. È il computer a difenderci dalle meteoriti, perché reagisce milioni di volte più in fretta di voi o di me. — D’un tratto tese la mano verso l’altro. — Janov, permettetemi di mostrarvi cosa sia in grado di fare il computer, e come sia lo spazio.
Pelorat fissò il suo compagno con aria piuttosto stralunata. Poi fece una breve risatina. — Non sono sicuro di volerlo sapere, Golan.
— Non ne siete sicuro perché non avete idea di che cosa vi aspetti. Su, correte il rischio, venite nella mia stanza.
Trevize prese il riluttante Pelorat per mano e lo condusse nella propria stanza.
Disse, sedendosi al computer: — Avete mai visto la Galassia, Janov? L’avete mai guardata?
— Intendete dire nel cielo? — fece Pelorat.
— Certo. Dove, se no?
— L’ho vista, sì. L’hanno vista tutti: basta alzare gli occhi.
— L’avete mai contemplata in una sera buia e tersa, quando i Diamanti sono sotto l’orizzonte?
I Diamanti erano stelle abbastanza luminose ed abbastanza vicine da brillare con discreta intensità nel cielo notturno di Terminus. Erano un piccolo gruppo distribuito su un’ampiezza di non più di venti gradi, e per buona parte della notte si trovavano tutte sotto l’orizzonte. A parte questo gruppo, c’erano stelle sparse di scarsa luminosità, appena visibili a occhio nudo. Niente più di un vago chiarore lattiginoso, e del resto non ci si poteva aspettare altro abitando su un pianeta come Terminus, che si trovava al limite estremo della spirale più remota della Galassia.
— Immagino di sì — disse Pelorat. — Ma che cosa c’è di particolare? È una vista comune.
— Sì, certo — disse Trevize. — È per quello che nessuno guarda: perché guardare quello che tutti vedono? Ma ora voi contemplerete veramente lo spettacolo del cielo stellato, e non da Terminus, dove la nebbia e le nubi interferiscono in continuazione.
Lo vedrete come non l’avete mai veduto, per quanto a lungo possiate avere guardato e per quanto buia e tersa possa essere stata la notte. Come vorrei essere al vostro posto in questo momento e trovarmi per la prima volta davanti alla nuda bellezza della Galassia.
Spinse una sedia verso Pelorat. — Sedetevi, Janov. Forse ci vorrà un po’ di tempo.
Non mi sono ancora abituato del tutto al computer. Ho già capito che la visione sarà olografica, per cui non ci vorrà alcuno schermo. Il computer si collega direttamente con il mio cervello, ma credo di poter fare in modo che produca un’immagine oggettiva che possiate vedere anche voi. Spegnete la luce, per favore. Anzi, no, è stupido da parte mia. La farò spegnere al computer, restate pure seduto.
Trevize si collegò con il computer, sovrapponendo le mani alle impronte sulla scrivania.
La luce diminuì, poi si spense del tutto, e nel buio Pelorat, a disagio si mosse sulla sua sedia.
— Non siate nervoso, Janov — disse Trevize. — Può darsi che mi riesca un pochino difficile controllare perfettamente il computer, ma procederò con calma, e bisogna che abbiate pazienza. Guardate, vedete la mezzaluna?
La mezzaluna era sospesa nelle tenebre davanti a loro. All’inizio era piuttosto indistinta e tremolante, poi però divenne luminosa e dai contorni netti.
Nella voce di Pelorat affiorò un timore reverenziale. — È quello Terminus? Siamo già così lontani?
— Sì, la nave è veloce.
La nave stava percorrendo una traiettoria curva dal lato notturno di Terminus, e il pianeta appariva come una grossa mezzaluna luminosa. Trevize per un attimo ebbe la tentazione di far descrivere alla nave un ampio arco che, portandoli sul lato diurno del pianeta, permettesse di contemplare le meraviglie, ma si trattenne.
Pelorat avrebbe potuto gradire la novità, ma non si sarebbe sentito particolarmente colpito dalla bellezza dello spettacolo. C’erano troppe fotografie, troppe carte geografiche, troppi mappamondi che mostrassero come fosse Terminus. Fin da bambini si era abituati a quelle immagini. Un pianeta prevalentemente d’acqua, povero di minerali, con poche industrie pesanti ed un buon livello di sfruttamento agricolo. E il migliore della Galassia, per quel che riguardava l’alta tecnologia e la miniaturizzazione.