— Non c’è fretta. La riunione del Consiglio non inizierà fino a che il sindaco Branno non avrà illustrato la situazione con i suoi modi risoluti e la sua lentezza da una-sillaba-alla-volta. Non sono affatto ansioso di sorbirmi un altro noiosissimo discorso. Guarda la città!
— La vedo: è uguale a com’era ieri.
— Sì, ma tu l’hai vista cinquecento anni fa, quando fu fondata?
— Quattrocentonovantotto — lo corresse istintivamente Compor. — Fra due anni si celebrerà il mezzo millennio, e il sindaco Branno sarà ancora in carica e lotterà come ora per impedire il verificarsi di improbabili avvenimenti negativi.
— Speriamo — disse secco Trevize. — Ma a cosa assomigliava questo posto cinquecento anni fa, quando fu fondato? Era una città, una piccola città abitata da un gruppo di uomini che preparavano un’Enciclopedia che non mai finita!
— Ma sì che fu finita.
— Tu ti riferisci all’attuale Enciclopedia Galattica. Quella non è l’Enciclopedia alla quale lavoravano loro: questa si trova in un computer e viene corretta quotidianamente. Hai mai dato un’occhiata all’originale incompleto?
— Intendi quello del Museo Hardin?
— Il Museo Salvor Hardin delle Origini. Di’ il nome completo, per piacere, visto che sei così pignolo riguardo alle date. Gli hai dato un’occhiata?
— No. Dovrei?
— No, non ne vale la pena. In ogni modo, questi Enciclopedisti formavano il nucleo della città, una città piccola in un mondo praticamente privo di metalli che girava intorno ad un sole isolato dal resto della Galassia. Un sole ai margini, proprio ai margini estremi. Ed adesso, cinquecento anni dopo, siamo un mondo periferico, un immenso parco, con tutto il metallo che si vuole. Siamo al centro di tutto, ora!
— Non proprio — disse Compor. — Giriamo ancora attorno ad un sole isolato dal resto della Galassia. Siamo sempre ai suoi margini estremi.
— Ah no, lo dici senza pensare. Sta proprio qui il succo della piccola Crisi Seldon che abbiamo appena attraversato: siamo qualcosa di più del singolo pianeta chiamato Terminus. Siamo la Fondazione, che arriva coi suoi tentacoli in tutte le parti della Galassia e la governa pur standone agli estremi confini. Possiamo farlo perché non siamo isolati, a parte che per la posizione, che però non conta.
— E va bene, hai ragione. — Compor era chiaramente poco interessato, e scese un altro scalino. La corda invisibile tesa fra di loro si allungò un poco.
Trevize allungò una mano come per indurre il suo compagno a risalire gli scalini.
— Non afferri il significato, Compor? C’è quest’enorme cambiamento, ma noi non l’accettiamo. Nel nostro cuore siamo rimasti attaccati alla piccola Fondazione, al piccolo mondo dei tempi antichi, i tempi dei ferrei eroi e dei nobili santi che sono scomparsi per sempre.
— Ma va’ là!
— Dico sul serio. Guarda Seldon Hall. All’epoca delle prime crisi e di Salvor Hardin era solo la Volta del Tempo, un piccolo auditorio in cui appariva l’immagine olografica di Seldon, nient’altro. Adesso è un mausoleo colossale, ma c’è forse una scala mobile attivata da un campo di forza? Od uno scivolo? Od un ascensore gravitazionale? Macché, non servirebbero, perché all’epoca di Salvor Hardin non si parlava di giacimenti di metallo nel pianeta, né di metallo importato. Abbiamo persino tirato fuori vecchia plastica ingiallita dal tempo quando abbiamo costruito quest’enorme edificio, tutto perché i visitatori provenienti dagli altri mondi si fermassero a dire: «Per la galassia! Che deliziosa vecchia plastica!» Te lo dico io, Compor, è tutta una messinscena.
— È a questo allora che non credi? A Seldon Hall?
— Ed a tutto il suo contenuto — disse Trevize a bassa voce, convinto. — Credo proprio che non abbia senso stare nascosti qui ai margini dell’Universo solo perché lo facevano i nostri antenati: penso che dovremmo stare nel cuore della Galassia, al centro degli avvenimenti.
— Ma Seldon dice che qui sbagli: il Piano funziona come previsto.
— Lo so, lo so. E su Terminus si insegna ai bambini fin da piccoli che Hari Seldon elaborò un Piano, previde tutto quanto cinque secoli fa, creò la Fondazione in modo da poter riconoscere certe crisi, la sua immagine è apparsa olograficamente ad ogni crisi, e ci ha guidato attraverso mille anni di storia, così che potessimo fondare senza rischi un secondo e più grande Impero Galattico sulle rovine della vecchia struttura decrepita, crollata cinque secoli fa, e disgregatasi completamente due secoli fa.
— Perché mi dici tutte queste cose, Golan?
— Perché voglio che tu capisca che è una messinscena: è tutta una messinscena.
Oppure, se anche era una realtà all’inizio, ora non lo è più. Non siamo i padroni di noi stessi, non siamo noi che seguiamo il Piano.
Compor guardò l’altro con occhi scrutatori. — Hai fatto discorsi di questo tipo altre volte, ma ho sempre pensato che tirassi fuori teorie ridicole per stuzzicarmi.
Adesso invece, per la Galassia, penso che parli sul serio.
— Certo che parlo sul serio!
— Com’è possibile? O hai scelto un modo abbastanza complicato per prenderti gioco di me, o sei pazzo.
— Né l’una né l’altra cosa — disse Trevize, tranquillo, ed infilò i pollici nella fusciacca come se non avesse più bisogno di gesticolare per sottolineare le sue convinzioni. — È vero, ho già riflettuto in passato sulla faccenda, ma allora si trattava di semplici intuizioni. Stamattina però, quella farsa là dentro mi ha all’improvviso chiarito tutto, e quando sarà il mio turno di parlare intendo esporre francamente le mie opinioni al Consiglio.
— Sei veramente pazzo! — disse Compor.
— Ah sì? Vieni con me e sentirai.
I due scesero le scale. Erano rimasti gli unici; tutti gli altri se n’erano andati.
Mentre Trevize precedeva l’amico di qualche passo, Compor mosse in silenzio le labbra rivolto alla schiena dell’altro e disse in silenzio — Stupido!
2
Il sindaco Harla Branno richiamò all’ordine i membri del Consiglio Direttivo.
Fino a quel momento li aveva guardati senza alcun visibile segno di interesse, tuttavia i presenti sapevano benissimo che aveva notato chi fosse già arrivato e chi fosse ancora assente.
I suoi capelli grigi erano acconciati in modo non particolarmente femminile, ma non imitavano nemmeno il taglio maschile: era la pettinatura della Branno ecco tutto.
Nel suo viso comune non c’era niente di bello, ma per qualche motivo nessuno, guardandolo, si aspettava che lo fosse.
Harla Branno era il più abile amministratore del pianeta, non le si poteva attribuire, né in effetti le si attribuiva, l’intelligenza di un Salvor Hardin o di un Hober Mallow, uomini che avevano reso vivi e fecondi i primi due secoli di esistenza della Fondazione, ma non le si poteva neanche rimproverare la sconsideratezza degli Indbur, che per diritto ereditario avevano governato la Fondazione subito prima dell’epoca del Mulo.
Non era un’oratrice che stimolasse il pubblico e la sua mimica e il suo gestire non erano affascinanti, ma sapeva prendere con calma le sue decisioni e, se era convinta che fossero giuste, sapeva essere coerente fino in fondo. Pur senza possedere alcun visibile carisma riusciva a convincere gli elettori che le sue decisioni fossero effettivamente giuste.
Poiché, secondo la dottrina di Seldon, il cambiamento storico è in larga misura calcolabile (sempre escludendo l’imprevedibile, un particolare che la maggior parte dei seldonisti dimenticavano, nonostante il deplorevole incidente del Mulo), ne risultava che la Fondazione avrebbe potuto mantenere la capitale su Terminus in qualsiasi situazione. Avrebbe potuto, naturalmente, perché Seldon appena apparso nelle sue spoglie di simulacro vecchio di cinque secoli, aveva affermato che le probabilità che la capitale restasse su quel pianeta erano dell’87,2 per cento. Quindi, persino per i seldonisti, c’era il 12,8 per cento di probabilità che la capitale fosse spostata in un punto più vicino al centro della Fondazione, con tutte le spaventose conseguenze che questo, a detta di Seldon, avrebbe comportato. Che tale probabilità di uno su otto non si fosse verificata, lo si doveva sicuramente al sindaco Branno.