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Naturalmente però la linea diritta che finiva all’altra estremità della Galassia non era detto che indicasse proprio il «capo opposto» di cui aveva parlato Hari Seldon.

Era stata Arkady Darell (se si poteva dare credito alla sua autobiografia) a servirsi della frase «un cerchio non ha una fine» per suggerire quello che adesso tutti accettavano come verità.

E benché Trevize tentasse di reprimere quel pensiero, il computer fu più svelto di lui. La linea azzurra scomparve, rimpiazzata da un cerchio che girò intorno alla Galassia passando attraverso il punto rosso che rappresentava il sole di Terminus.

Un cerchio non ha una fine, se esso cominciava a Terminus, per cercare l’altro capo bisognava semplicemente tornare a Terminus, ed era effettivamente lì che era stata trovata la Seconda Fondazione, nello stesso mondo che ospitava la Prima.

E se in realtà la scoperta della Seconda Fondazione fosse stata soltanto un’illusione? Che cosa si sarebbe dovuto tracciare invece della linea e del cerchio, oppure oltre ad essi?

— Vi divertite a creare immagini illusorie? — disse Pelorat. — Come mai c’è quel cerchio azzurro?

— Stavo solo provando i comandi. Volete che localizziamo la Terra?

Dopo un attimo di silenzio, Pelorat disse: — State scherzando?

— No. Ora provo.

Provò, ma non successe niente.

— Mi dispiace — disse.

— La Terra non c’è?

— Forse ho formulato male l’ordine mentalmente, ma mi sembra improbabile. È più probabile che la Terra non sia compresa fra i dati fondamentali di cui dispone il computer.

— Potrebbe esserci invece, ma sotto un altro nome.

Trevize accettò prontamente l’ipotesi. — Quale altro nome, Janov?

Pelorat non disse niente, e Trevize sorrise, nell’oscurità. Pensò che forse le cose si sarebbero messe a posto da sole: bastava lasciarle riposare, maturare. Cambiò deliberatamente argomento e disse: — Mi chiedo se non si possa manipolare il tempo.

— Il tempo? E in che modo?

— La Galassia ruota. Terminus impiega quasi mezzo miliardo di anni per fare un giro completo della grande circonferenza galattica. Le stelle che si trovano più vicine al centro compiono naturalmente il giro in molto meno tempo. Il moto di ciascuna stella, relativo al buco nero centrale, potrebbe essere registrato dal computer, e se così fosse si potrebbe chiedere a quest’ultimo di moltiplicare ogni moto per milioni di volte, e di rendere visibile così l’effetto rotazionale. Posso tentare di farlo.

Trevize provò, e fu tale lo sforzo di volontà necessario, che non poté fare a meno di tendere tutti i muscoli: era come se avesse afferrato la Galassia e la stesse costringendo a girare nonostante una forza di resistenza terribile.

La Galassia si mosse. Piano, con tutta la sua mole poderosa, ruotò nella direzione che determinava il contrarsi dei bracci della spirale.

Mentre Trevize e Pelorat guardavano, il tempo passò con rapidità incredibile. Era un tempo falso, artificiale, ed a mano a mano che trascorreva le stelle diventavano sempre più qualcosa di evanescente.

Qui e là alcune delle più grandi divennero maggiormente luminose, fino ad espandersi in giganti rosse. Poi una stella degli ammassi centrali esplose in silenzio, con un bagliore accecante che dominò tutta la Galassia per una frazione di secondo e poi scomparve. Lo stesso accadde a un’altra stella in uno dei bracci della spirale, e ancora ad un’altra non troppo lontana dalla prima.

— Supernove — disse Trevize, con un lieve tremito nella voce.

Possibile che il computer sapesse predire esattamente quali stelle sarebbero esplose, e quando? O stava usando soltanto un modello semplificato che servisse a mostrare il futuro delle stelle in termini generali, anziché in dettaglio?

Con un sussurro rauco, Pelorat disse: — La Galassia sembra un essere vivente che avanzi pian piano nello spazio.

— In effetti è quello che fa — disse Trevize. — Ma ormai sono stanco. A meno che non impari a fare questo gioco spendendoci meno tensione, non posso reggerlo a lungo.

Smise di concentrarsi. La Galassia rallentò, poi si fermò e s’inclinò finché si ritrovò nella stessa posizione ad angolo retto rispetto al piano galattico da cui erano partiti.

Trevize chiuse gli occhi e respirò a fondo. Sentiva che Terminus diventava sempre più piccolo alle loro spalle, e che gli ultimi brandelli di atmosfera stavano svanendo con esso. E percepiva la presenza delle varie astronavi che affollavano lo spazio intorno al pianeta.

Non gli venne in mente di verificare se fra quelle astronavi ce ne fosse una speciale, se ce ne fosse una gravitazionale come la sua, e che seguisse la traiettoria della sua più da vicino di quanto il caso concedesse...

Parte quinta

L’oratore

1

Trantor!

Per ottomila anni era stata la capitale di una grande e potente entità politica che abbracciava numerosi sistemi planetari in continua espansione. Poi, per dodicimila anni, era stata la capitale di un’entità politica che abbracciava l’intera Galassia. Era stata il centro, il cuore, la quintessenza dell’Impero Galattico.

Era impossibile pensare all’Impero senza pensare a Trantor. Anzi, proprio perché Trantor doveva continuare a brillare nel suo splendore metallico, nessuno si era accorto che l’Impero aveva perso il suo primato, la sua superiorità.

Trantor si era sviluppata a tal punto, da diventare una città che occupava un intero pianeta. La sua popolazione era stata stabilizzata (per legge) sui quarantacinque miliardi di individui e le uniche zone verdi, in superficie, erano quelle del Palazzo Imperiale e del complesso Università Biblioteca.

Il territorio di Trantor era ricoperto di metallo. Sia i deserti, sia le zone di giungle fertili erano stati sfruttati fino all’osso e brulicavano di persone, di giungle amministrative, di elaborazioni computerizzate, e di immensi magazzini pieni di cibo e di pezzi di ricambio. Le catene montuose erano state trasformate in pianure e gli abissi erano stati riempiti. I tunnel interminabili della città si snodavano sotto le grandi estensioni continentali, e gli oceani erano stati trasformati in enormi serbatoi sotterranei di acquacoltura, uniche (ed insufficienti) fonti locali di cibo e di minerali.

Il collegamento con i Mondi Esterni, dai quali Trantor importava le materie prime di cui aveva bisogno, era assicurato da mille spazioporti, da diecimila navi da guerra, da centomila navi mercantili e da un milione di navi da carico.

Nessuna città così grande era mai riuscita ad avere impianti di riciclaggio tanto perfetti. Nessun pianeta della Galassia aveva usato fino a tal punto l’energia solare od era ricorso agli espedienti di Trantor per liberarsi del sovrappiù di calore. Sul lato notturno del pianeta, nello strato superiore dell’atmosfera, erano posti radiatori scintillanti che venivano calati nella città di metallo durante il giorno. Quando sopraggiungeva la notte i radiatori salivano, e quando nasceva il giorno scendevano.

Così Trantor aveva sempre un’asimmetria artificiale che era quasi il suo simbolo.

Era stato allora, all’apice del suo sviluppo, che Trantor era assurta a guida dell’Impero.

Era una guida che non riusciva a governarlo bene, ma niente avrebbe potuto governare bene l’Impero. Era troppo grande per essere tenuto insieme da un singolo pianeta, anche nei periodi storici in cui gli imperatori erano dinamici ed efficienti. E come avrebbe potuto Trantor governarlo bene quando, nelle epoche di decadenza, la corona imperiale era finita in mano a politici furbi e a stupidi incompetenti, e quando la burocrazia era diventata ricettacolo di individui altamente corruttibili!