Perché non avrebbe dovuto? Gli era parso così pronto a lasciarsi convincere. No, non era vero neanche questo. Gli era sembrato così stupido, così facilmente influenzabile, così privo di idee ed opinioni proprie, che non aveva visto l’ora di usarlo come comoda cassa di risonanza per i suoi discorsi. Compor l’aveva aiutato a migliorare ed affinare le sue teorie. Gli era stato utile, e Trevize si era fidato di lui semplicemente perché gli era riuscito comodo fidarsi di lui. Ma ormai era inutile rimproverarsi di non aver capito che Compor potesse essere un traditore. Trevize avrebbe dovuto dar retta al detto che consigliava di non fidarsi di nessuno.
Ma si può passare tutta la vita a non fidarsi mai di nessuno? È chiaro che si debba, pensò Trevize.
E chi avrebbe pensato che la Branno avrebbe avuto l’audacia di scacciare un consigliere dalla Sala del Consiglio, senza che nessuno intervenisse in suo favore?
Anche se indubbiamente lo disapprovavano dal più profondo del cuore, anche se sarebbero stati pronti a scommettere tutto il loro sangue sul fatto che la Branno avesse ragione, ugualmente avrebbero dovuto, per principio, opporsi alla violazione del privilegio di consigliere che era stata compiuta nei suoi confronti. Branno la Bronzea era chiamata, e certo agiva con rigidità metallica.
A meno che lei stessa non si trovasse sotto il controllo di altri. No, di quel passo si arrivava alla paranoia! Eppure... Trevize sentiva che ormai i suoi ragionamenti seguivano un circolo vizioso, dal quale non erano ancora usciti quando arrivarono le guardie.
— Dovete venire con noi, consigliere — disse l’ufficiale di grado più alto, con aria grave ed impassibile. Dalle mostrine si vedeva che era un tenente. Aveva una piccola cicatrice sulla guancia destra ed appariva stanco, come se facesse quel lavoro da troppo tempo e con poca soddisfazione, il che poteva anche essere per dei militari, visto che la pace durava da più di un secolo.
Trevize non si mosse. — Il vostro nome, tenente.
— Tenente Evander Sopellor, consigliere.
— Vi renderete conto di stare violando la legge, immagino, tenente Sopellor: non potete arrestare un consigliere.
— Abbiamo ricevuto ordini diretti dall’alto, signore — disse il tenente.
— Non importa. Nessuno vi può ordinare di arrestare un consigliere. Spero capiate che questo può portarvi davanti alla corte marziale.
— Non vi stiamo affatto arrestando, consigliere — disse il tenente.
— Allora non ho l’obbligo di venire con voi, vi pare?
— Abbiamo ricevuto l’ordine di scortarvi a casa vostra.
— Conosco la strada.
— E di proteggervi durante il tragitto.
— Proteggermi da che? O da chi?
— Nel caso in cui si radunasse una folla.
— A mezzanotte?
— È proprio per questo che abbiamo aspettato la mezzanotte, signore. Ed adesso, signore, siamo costretti a chiedervi di venire con noi, se volete essere protetto. Mi sia permesso dire, non come minaccia ma unicamente per informarvi, che siamo autorizzati, se necessario, ad usare la forza.
Trevize notò le fruste neuroniche delle due guardie. Si alzò cercando di assumere un atteggiamento il più possibile dignitoso. — A casa mia, allora. E magari scoprirò che intendete invece portarmi in prigione.
— Non abbiamo ricevuto l’ordine di mentirvi, signore — disse il tenente con una nota d’orgoglio nella voce. Trevize capì che Sopellor era un uomo serio che credeva nel proprio mestiere, e che prima di mentire avrebbe dovuto ricevere ordini precisi in merito. Inoltre, ove fosse stato costretto a farlo, l’espressione ed il tono della voce l’avrebbero sicuramente tradito.
— Vi chiedo scusa, tenente — disse Trevize. — Non intendevo mettere in dubbio la vostra parola.
Fuori li attendeva una macchina di superficie. La strada era deserta, non c’era anima viva, meno che mai una folla. Ma il tenente era stato sincero: non aveva detto che c’era una folla malintenzionata ad attendere Trevize. Aveva detto semplicemente «nel caso si radunasse una folla».
Sopellor, prudentemente, fece camminare Trevize fra lui stesso e la macchina, in modo che non potesse fare scarti improvvisi e fuggire. Poi entrò in macchina dopo di lui e gli si sedette accanto nel sedile posteriore.
La macchina partì.
Trevize disse: — Una volta a casa, immagino che potrò occuparmi liberamente dei miei affari, no? Che potrò uscire, per esempio, se lo vorrò.
— Non abbiamo l’ordine di interferire nelle vostre cose, consigliere, salvo che nei casi in cui entri in gioco la vostra sicurezza.
— E questo che cosa significa?
— Che una volta arrivato a casa non potrete andarvene di lì. Le strade non sono sicure per voi, ed io sono responsabile della vostra incolumità.
— Intendete dire che sono agli arresti domiciliari?
— Non sono un avvocato, non so cosa significhi, consigliere.
Guardava fisso davanti a sé, ma teneva un gomito a contatto del fianco di Trevize: se Trevize si fosse mosso, anche minimamente, Sopellor se ne sarebbe accorto.
La macchina si fermò davanti alla casetta di Trevize, nel quartiere di Flexner. In quel periodo Trevize non viveva con nessuno: Flavella si era stancata della vita sregolata che i membri del Consiglio erano costretti a fare, e se n’era andata. Non ci sarebbe stato nessuno ad attenderlo, dentro.
— Esco? — chiese.
— Esco prima io, consigliere — disse il tenente. — Vi scorteremo in casa.
— Per la mia sicurezza?
— Sissignore.
Sulla porta di casa c’erano due guardie in attesa. Dentro brillava un fioco lume da notte, i cui raggi non filtravano dalle finestre opache.
Per un attimo Trevize s’indignò per quell’intrusione, poi in cuor suo scrollò le spalle: se i consiglieri non erano in grado di proteggerlo nella Sala stessa del Consiglio, non c’era motivo di pensare che la sua casa fosse un castello inespugnabile.
— In quanti siete, qua dentro? — disse. — Un reggimento?
— No, consigliere — disse una voce dura e ferma, dall’interno della casa. — Oltre a quelle che già vedete c’è solo un’altra persona, e io vi sto aspettando da un pezzo.
Harla Branno, sindaco di Terminus, era in piedi sulla porta del soggiorno. — È ora che facciamo una chiacchierata noi due, non credete?
Trevize la guardò fisso. — Tante storie solo per...
— Zitto, consigliere — lo interruppe la Branno, a voce bassa ma con tono di comando. — E voi quattro, fuori. Fuori! Andrà tutto bene, qui dentro.
Le quattro guardie fecero il saluto militare e girarono sui tacchi. Trevize ed Harla Branno rimasero soli.
Parte seconda
Il sindaco
1
Harla Branno aveva aspettato un’ora, immersa in pensieri cupi. Tecnicamente parlando, era colpevole di avere fatto irruzione in quella casa. Di più, era andata contro i princìpi della costituzione violando i diritti di un consigliere: secondo le leggi severe che vincolavano i sindaci dall’epoca di Indbur III e del Mulo, quasi due secoli prima, era incriminabile.
In quella particolare giornata, però, le era concesso tutto. Ma anche quel giorno sarebbe passato, e lei si senti a disagio, al pensiero.
I primi due secoli erano stati l’Età d’Oro della Fondazione, l’Era Eroica; per lo meno visti in retrospettiva da coloro che non avevano avuto la sventura di vivere in un’epoca tanto infida. Salvor Hardin e Hober Mallow ne erano stati i due grandi eroi, idolatrati al punto da poter rivaleggiare con lo stesso incomparabile Hari Seldon. I tre formavano la triade su cui poggiava tutta la leggenda della Fondazione (ed anche la sua storia).
A quei tempi, però, la Fondazione era costituita da un unico mondo insignificante che aveva un tenue legame con i Quattro Regni e che si rendeva conto solo vagamente di quanto il Piano Seldon lo proteggesse e lo difendesse dal resto del potente Impero Galattico.