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Sentì l’odore della morte. Sulle prime, temette che fosse troppo tardi, poi identificò gli odori personali di Quattro-Braccia e Testa-Piccola. C’era anche quella di Wesel — frammisto all’acre sentore del terrore e dell’agonia. Ma Wesel era ancora viva.

Dimentico di ogni prudenza, Shrick si lanciò fuori della porta con tutta la forza dei muscoli delle sue gambe. E trovò Wesel, distesa supina su una superficie piatta, scivolosa per il sangue. La maggior parte di questo sangue apparteneva a Quattro-Braccia, ma una parte era suo.

«Shrick!» urlò Wesel. «Il gigante!»

Shrick distolse lo sguardo dalla sua compagna e vide sospesa sopra di lui la faccia immensa e pallida del gigante. Urlò, ma in quell’urlo c’erano più furore e rabbia che terrore.

Vide, non lontana dal punto in cui si teneva aggrappato a Wesel, una enorme lama di metallo scintillante. Si accorse subito che l’orlo era affilato. Il manico era stato forgiato per una mano molto più grande delle sue, tuttavia riuscì ad afferrarlo, sia pure a stento. Pareva che la lama fosse fissata a qualcosa. Puntando i piedi contro il corpo di Wesel, come unico appiglio possibile, diede un disperato strappo.

Proprio mentre la mano del gigante, le grosse dita tese, stava calando giù per ghermirlo, la lama si sbloccò. Quando le gambe di Shrick, all’improvviso, si drizzarono, fu proiettato lontano da Wesel. Il gigante cercò di afferare quella forma volante, e ululò di angoscia quando Shrick calò un fendente con la lama e gli troncò un dito.

Sentì la voce di Wesel che gli diceva: «Tu sei l’Uccisore-di-Giganti!»

Adesso si trovava all’altezza della testa del gigante. Si girò di scatto e riuscì a infilare i piedi dentro una piega della pelle artificiale che copriva quel corpo gigantesco. E rimase sospeso lassù, roteando la sua arma con entrambe le mani, tagliando e squarciando. Le grandi mani del gigante roteavano impazzite, e lui si trovò coperto di botte e di lividi. Ma non una sola volta quelle mani riuscirono a trovare una presa.

Poi vi fu un grande, orrendo zampillo di sangue, e uno sferzare impazzito di arti poderosi. Infine, anche questo movimento cessò, ma fu soltanto la voce di Wesel che lo richiamò alla realtà dalla sua furente bramosia di strage.

Così, l’aveva ritrovata, ancora distesa per essere sacrificata alle oscure divinità dei giganti, ancora legata a quella superficie bagnata dal suo sangue e da quello della sua guardia. Ma lei gli sorrise, e nei suoi occhi c’era un rispetto che sconfinava nella reverenza.

«Sei ferita?» le chiese, con una acuta punta ansiosa nella sua voce.

«Soltanto un po’. Ma Quattro-Braccia è stata tagliata a pezzi… e anche io lo sarei stata, se tu non fossi arrivato. E…» la sua voce suonò come un inno, «… hai ucciso il gigante!»

«Era stato predetto. Inoltre», per una volta fu onesto, «non sarebbe stato possibile, senza l’arma del gigante».

Con la sua lama tagliò i legami di Wesel. Lentamente, la sua compagna ondeggiò via dal luogo del sacrificio. Poi: «Non posso muovere le gambe!» La sua voce suonò terrorizzata. «Non posso muoverle!»

Shrick indovinò cosa non funzionava. Sapeva qualcosa di anatomia — la sua era la conoscenza del guerriero che poteva trovarsi costretto ad immobilizzare il nemico prima di ucciderlo — e si accorse subito in qual modo la lama affilata del gigante aveva fatto il suo danno. Il furore ribollì in lui contro quegli esseri mostruosi e crudeli. E c’era qualcosa di più del furore. C’era la sensazione, rara fra la sua gente, d’una profonda pietà per la sua compagna storpiata.

«La lama… è molto affilata… Non sentirò niente», lei lo sollecitò.

Ma Shrick non riuscì a costringersi a farlo.

Adesso stavano galleggiando verso l’alto, sfiorando l’enorme massa del gigante morto. Con una mano Shrick afferrò la spalla di Wesel — l’altra stringeva ancora quell’arma bella e nuova — e si allontanò dalla colossale carcassa con un calcio. Poi, spinse Wesel attraverso la porta della Barriera, e provò un profondo sollievo quando si ritrovò ancora una volta nel territorio familiare. La segui, poi, per prudenza, chiuse la porta dietro di sé e la sbarrò.

Per qualche battito di cuore Wesel si diede da fare a rassettarsi la pelliccia tutta in disordine. Shrick non poté fare a meno di notare che Wesel stava bene attenta a non far scivolare le sue mani verso la parte bassa del corpo, dove si aprivano le ferite, piccole ma micidiali, che le avevano tolto ogni forza alle gambe. Aveva la vaga impressione che si potesse far qualcosa per qualcuno ferito in quel modo, ma sapeva anche che ciò era al di là dei suoi poteri. E il furore verso i giganti — non più, ora, un furore impotente — ritornò, minacciando di soffocarlo con la sua intensità.

«Shrick!» La voce di Wesel lo richiamò alla realtà. «Dobbiamo tornare subito dal Popolo. I giganti stanno preparando una magia per provocare la Fine».

«La grande luce rovente?»

«No. Ma aspetta! Prima devo dirti tutto ciò che ho appreso. Altrimenti non mi crederesti. Ho appreso cosa siamo, cos’è il mondo. Ed è strano, e meraviglioso, e incredibile, per noi.

«Cos’è l’Esterno?» Non attese la sua risposta, la lesse nella sua mente prima che la bocca potesse formare le parole: «Il mondo è soltanto una bolla di vuoto dentro un immenso pezzo di metallo, più grande di quanto la mente possa immaginare. Ma non basta! Al di là del metallo che si trova fuori dell’Esterno, non c’è niente. Niente! Non c’è aria».

«Ma almeno l’aria deve esserci…»

«No, ti dico. Non c’è niente».

«E il mondo… come posso trovare le parole? Il loro nome per il mondo è: nave. E questo sembra significare qualcosa di grande che va da un luogo all’altro. E tutti noi, giganti e Popolo, siamo dentro la nave. Sono stati i giganti a costruire la nave».

«Allora, non è viva?»

«Non posso dirlo. Loro sembrano pensare che sia femmina. Deve avere qualche tipo di vita che non è vita. E va da un mondo all’altro».

«E questi altri mondi?»

«Li ho intravisti. Sono orrendi… orrendi, ti dico! Noi troviamo paurosi gli spazi aperti dell’Interno… ma questi altri mondi sono tutti spazi aperti, salvo per un lato».

«Ma noi… cosa siamo?» Suo malgrado, Shrick si scoprì a credere a una buona metà di ciò che Wesel gli stava dicendo. Forse lei possedeva, in un certo grado, la facoltà di proiettare le proprie convinzioni nella mente di un altro col quale fosse in particolare intimità. «Noi, cosa siamo?»

Lei restò silenziosa per numerosi battiti di cuore. Poi: «Il nome che loro ci danno è Mutanti. L’immagine non era affatto… chiara. Significa che noi — il Popolo — siamo cambiati. Eppure la loro immagine del Popolo, prima del cambiamento, era identica ai Diversi, prima che noi li trucidassimo tutti.

«Molto, moltissimo tempo fa — molte mani di nutrimenti — il primo Popolo, i padri dei nostri padri, arrivarono nel mondo. Arrivarono qui da un mondo più grande… uno di quei mondi dagli orribili spazi aperti. Arrivarono col cibo dentro la grande Caverna-del-Cibo e quel cibo viene trasportato su un altro mondo.

«Ora, nello spazio orrendo e vuoto al di fuori dell’Esterno c’è… una luce che non è luce. E questa luce… cambia le persone. No; non le persone ormai cresciute o i piccoli già nati, bensì i piccoli prima della nascita. Come i capi ormai morti e dimenticati del Popolo, i giganti temono questi cambiamenti in se stessi. Così, hanno fatto in modo di tener fuori dall’Interno quella luce che non è luce.

«Ed ecco come hanno fatto. Tra la Barriera e il vuoto, là fuori, hanno riempito lo spazio con quella materia spugnosa dentro la quale abbiamo scavato le nostre caverne e le gallerie. Il primo Popolo lasciò la grande Caverna-del-Cibo. Fecero dei buchi sulla Barriera, le porte, e poi scavarono lunghe gallerie dentro alla materia spugnosa. Scavare, era la loro natura. E alcuni di loro si accoppiarono nelle caverne più vicine al vuoto che si stende oltre il metallo. I loro figli furono… diversi».