Выбрать главу

«Chi te l’ha detto?»

«Strela».

«Sì, Strela la Saggia. Che nella sua saggezza mangiò una grande quantità di cibo-che-uccide!»

Ancora una volta quell’odiosa risata echeggiò tra l’assemblea.

Sterret sollevò la mano che reggeva la lancia, scorciando la sua stretta sull’impugnatura. Il suo volto si corrugò mentre pregustava il vivido zampillo di sangue che tra un attimo sarebbe sgorgato dalla gola del Diverso. Weena urlò. Con una mano tolse suo figlio all’odiosa stretta del capo, con l’altra afferrò la sua lancia e gliela strappò.

Sterret era vecchio, e poiché aveva esercitato da molte generazioni la sua autorità senza alcuna opposizione, si era fatto incauto. Eppure, per quanto vecchio fosse, evitò il colpo violento che gli vibrò la madre. E non ebbe bisogno di gridare ordini. Da ogni parte il popolo si stava precipitando sulla ribelle.

Già in preda all’orrore per la sua azione. Weena sapeva di non potersi aspettare alcuna pietà. Eppure la vita, perfino quella vissuta dalla tribù, era dolce. Prendendo lo slancio dalla superficie grigia e spugnosa del Luogo-d’Incontro, saltò. L’impeto del suo balzo la fece arrivare accanto alla porta attraverso la quale entrava a fiotti la luce dell’Interno. La guardia che si trovava là era disarmata, giacché, a cosa mai sarebbe servita una minuscola lancia contro i giganti? La guardia, dunque, arretrò davanti all’aguzza punta luccicante e ai denti digrignanti di Weena. E poi Weena fu all’Interno.

Sapeva che avrebbe potuto difendere la porta per un tempo indefinito contro gli inseguitori. Ma quello era il paese dei giganti. Nell’angoscia della indecisione, si appoggiò al fianco della porta, sempre stringendo in mano la lancia. Una testa sbucò dall’apertura, poi si ritrasse sgocciolante sangue. Soltanto più tardi si rese conto che era la testa di Skreer.

Fu conscia dell’intensa luce che illuminava tutto, intorno a lei, dei vasti spazi che si stendevano da ogni lato del suo corpo avvezzo ai luoghi angusti delle caverne e delle gallerie. Si sentiva nuda, e, malgrado la lancia, del tutto indifesa.

Poi, ciò che temeva, avvenne.

Avverti, dietro di lei, l’avvicinarsi di due giganti. Percepì il loro respiro, il rombo basso, infinitamente minaccioso, delle loro voci mentre parlavano fra loro. Non l’avevano vista — di questo era certa, ma era soltanto questione di pochi battiti di cuore prima che ciò avvenisse. Quella porta spalancata, con la certezza della morte che l’attendeva oltre ad essa, pareva assai più preferibile al terrore dell’ignoto. Se fosse stata in gioco soltanto la sua vita, sarebbe tornata dentro ad affrontare la giusta collera del suo capo, del suo compagno e della sua tribù.

Lottando per non cader preda del panico cieco, si costrinse a una lucidità di pensiero di solito estranea alla sua stessa natura. Se avesse ceduto all’istinto, fuggendo all’impazzata davanti ai giganti che si avvicinavano, si sarebbe fatta vedere. La sua unica speranza stava nel rimanere del tutto immobile. Skreer e gli altri maschi che avevano partecipato alle incursioni nell’Interno le avevano detto che i giganti, incuranti a motivo delle loro dimensioni e della loro forza, più spesso che no non si accorgevano del Popolo, a meno che non venisse fatto qualche movimento che li tradiva.

I giganti erano molto vicini.

Girò la testa con estrema lentezza.

Adesso poteva vederli, due immense figure che galleggiavano nell’aria con tranquilla arroganza. Non l’avevano vista, e lei ebbe conferma che non si sarebbero minimamente accorti se non avesse fatto qualche movimento inconsulto che richiamasse la loro attenzione. Però, com’era difficile resistere all’impulso di rituffarsi dentro la porta che dava sul Luogo-d’Incontro, per incontrare la morte certa per mano della tribù offesa! Era ancora più difficile lasciar la presa con la quale si teneva aggrappata alla porta e fuggire — dovunque — in preda a un panico urlante.

Ma tenne duro.

I giganti passarono.

Il sordo rombare delle loro voci si perse in distanza, il loro odore acre e sgradevole, del quale aveva sentito parlare senza mai sperimentarlo prima di quel momento, si attenuò. Weena osò, ancora una volta, alzare la testa.

Nel tumulto confuso e terrorizzato dei suoi pensieri, un’idea si stagliava con terribile chiarezza. La sua unica speranza di sopravvivenza, per quanto pietosamente esile, stava nel seguire i giganti. Non c’era tempo da perdere: già udiva il clamore delle voci che uscivano dalla caverna, poiché i suoi occupanti si erano anch’essi accorti che i giganti erano passati. Lasciò la presa sull’orlo della porta e galleggiò lentamente verso l’alto.

Quando la testa di Weena entrò in improvviso contatto con qualcosa di duro, cacciò un grido. E attese per un lungo istante, gli occhi chiusi per il terrore, la morte che certamente sarebbe calata su di lei. Ma non accadde nulla. La pressione sulla cima del suo cranio non crebbe né diminuì.

Timidamente aprì gli occhi.

Fin dove poteva vedere, in entrambe le direzioni, si stendeva un’asta, o meglio una sbarra diritta. Aveva all’incirca la grossezza del suo corpo, ed era fatta, o rivestita, d’un materiale che non le era del tutto nuovo. Assomigliava alle corde che le femmine della sua specie intrecciavano con le fibre che i maschi qualche volta riportavano dal Luogo-delle-Cose-Verdi-che-Crescono, ma incomparabilmente meno rozzo e più compatto. Un tempo si era creduto che fosse il pelo dei giganti, ma adesso si presumeva che fosse prodotto da loro per qualche uso specifico.

Sui tre lati della lunghissima sbarra si spalancava il vuoto abbagliante che tanto spaventava il popolo della caverna. Sul quarto lato c’era una superficie piatta e luccicante. Weena scopri di potersi insinuare senza eccessivo sforzo tra la sbarra e questa superficie. Scopri anche che, potendo contare su questa duplice solidità sulla sua pancia e sulla schiena, riusciva a spingersi avanti con ragionevole velocità. Soltanto quando guardava su entrambi i lati sentiva tornarle le vertigini. Presto imparò a non guardare.

È difficile valutare il tempo che impiegò in questo suo viaggio in un mondo dove il tempo era senza significato. Per due volte dovette fermarsi e nutrire Shrick — timorosa che i suoi vagiti famelici tradissero la loro presenza ai giganti, o a qualcuno del Popolo che poteva, anche se la cosa appariva del tutto improbabile, averla seguita. Una volta sentì la sbarra vibrare, e s’immobilizzó sulla sua superficie opaca in preda a un abbietto terrore. Un gigante passò, spingendosi rapidamente in avanti con le due mani. Se una di quelle due mani fosse finita su Weena, sarebbe stata la fine. Per molti battiti di cuore dopo il passaggio del gigante, lei rimase accasciata e impotente, quasi incapace, perfino, di respirare.

Le parve di attraversare, nel suo viaggio, luoghi di cui aveva sentito i maschi parlare, e poteva essere senz’altro vero, ma non aveva alcun modo di controllarlo, poiché il mondo del Popolo, con le sue gallerie e le caverne, era un territorio a lei familiare, mentre il mondo dei giganti le era noto soltanto grazie alle porte attraverso le quali un coraggioso esploratore poteva penetrarvi e tornare a riferire.

Weena cominciava a provare una grande debolezza e sentiva i morsi della fame e della sete farsi più insistenti, quando l’interminabile sbarra finì per condurla in un luogo dove poté annusare l’accattivante odore del cibo. Si fermò e guardò in tutte le direzioni. Ma qui, come in ogni altro punto di quel paese alieno, la luce era troppo abbagliante per i suoi occhi non abituati. Poteva distinguere, vagamente, grandi forme che erano al di la della sua limitata comprensione. Non vide nessun gigante, né altre cose che si muovessero.

Cautamente, schiacciandosi contro la superficie della sbarra, si spostò di lato, scostandosi dall’altra superficie, liscia e lucida, a contatto della quale aveva viaggiato. La sua testa oscillò avanti e indietro, le sue sensibili narici si dilatarono. La luce troppo viva la confondeva, per cui chiuse gli occhi. Ancora una volta il suo naso cercò la fonte di quell’odore così appetitoso; la testa oscillò sempre più lentamente, finché si arrestò, puntando nella direzione giusta.