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Odiava l’idea di abbandonare la relativa sicurezza che le offriva la sbarra, ma la fame prevalse infine su ogni altra considerazione. Puntò tutto il corpo nella direzione che aveva stabilito col naso, e saltò. Arrivò con un tonfo su un’altra superficie piatta. Cercò intorno con la mano libera, finché trovò una sporgenza e vi si aggrappò. Quando la sporgenza ruotò, fu quasi sul punto di lasciarla andare, colta di sopresa, poi, con sconcertante rapidità, davanti ai suoi occhi comparve una fessura che si allargò in fretta. Dietro di essa, comparve un’oscurità profonda, più che benvenuta. Weena vi scivolò dentro, grata del sollievo che le veniva offerto dopo l’abbagliante luminosità dell’Interno. Soltanto più tardi si rese conto che quella non era una porta come quelle fatte dal suo popolo nella Barriera, ma una porta diversa di proporzioni davvero gigantesche. Ma ciò che le importò, a tutta prima, fu solo quell’ombra fresca e tonificante.

Esaminò, quindi, il luogo dove si trovava.

Dalla porta, ora appena socchiusa, entrava abbastanza luce da consentirle di vedere ciò che si trovava nella caverna. Anche se era la forma sbagliata per una caverna, in verità, poiché le pareti, il pavimento e il soffitto erano perfettamente piani e regolari. All’estremità opposta, ognuno nel suo scomparto, c’erano dei globi enormi, d’una lucentezza opaca. Da essi giungeva un odore che quasi ridusse al delirio l’affamata Weena.

Ma Weena si trattenne: conosceva quell’odore. Era quello dei frammenti di cibo che erano stati portati a volte nelle caverne, strappati con furtiva astuzia alle piattaforme assassine dei giganti. Era forse anche quella una piattaforma assassina? Si lambiccò il cervello per ricordare le scarse descrizioni fatte dai maschi, di quei congegni, e decise che quella, in fin dei conti, doveva essere la Caverna-del-Cibo. Lasciò Shrick e la lancia di Sterret, e si avvicinò a uno dei globi.

Dapprima cercò di tirarlo fuori dal suo scomparto, ma parve che qualcosa lo bloccasse. Ma non importava. Schiacciando la sua faccia contro la superficie del globo, affondò i denti nella sua pelle sottile. Sotto la pelle c’erano carne e sangue… — un succo leggero, dolce, con una lieve punta d’acido. Skreer una volta le aveva promesso una porzione di quel cibo, ma quella promessa non era mai stata mantenuta. Adesso Weena aveva un’intera caverna di quel cibo tutta per lei.

Dopo essersene ingozzata, tornò indietro per prendere Shrick che adesso si lamentava facendo un gran baccano. Aveva giocato con la lancia e aveva finito per tagliarsi con la punta acuminata. Ma fu la lancia che Weena afferrò, per difendere se stessa e suo figlio, poiché una voce disse all’improvviso, comprensibile ma dallo strano accento: «Chi sei? Cosa fai nel nostro paese?».

Era uno del Popolo, un maschio. Era disarmato, altrimenti, ne fu convinta, non avrebbe fatto domande. Ma anche così, Weena seppe che il minimo rilassarsi dell’attenzione, da parte sua, l’avrebbe costretta ad affrontare un selvaggio attacco a suon di denti. Strinse più saldamente la lancia, e la girò in modo che la punta fosse rivolta contro lo sconosciuto.

«Sono Weena», dichiarò, «della tribù di Sterret».

«Della tribù di Sterret? Ma la tribù di Sessa domina le strade fra i nostri paesi».

«Io sono venuta dall’Interno. E tu chi sei?».

«Tekka. Sono del popolo di Skarro. Tu devi essere una spia».

«E avrei portato con me mio figlio?»

Tekka fissò con attenzione Shrick.

«Capisco», disse infine. «Un Diverso. Ma come hai fatto ad attraversare il paese di Sessa?»

«Non l’ho attraversato. Sono venuta fin qui dall’Interno».

Era ovvio che Tekka si rifiutava di credere alla sua storia.

«Devi venire con me da Skarro», replicò. «Giudicherà lui».

«E se io venissi?»

«Per il Diverso, la morte. Per te, non so. Abbiamo già fin troppe femmine nella nostra tribù».

«Questo vuol dire che non verrò». Agitò minacciosa la lancia.

Non avrebbe mai sfidato un maschio della propria tribù in quel modo — ma questo Tekka non era del suo popolo. E le avevano insegnato fin da piccola che perfino una femmina della tribù di Sterret era superiore a un maschio — anche se era un capo — di una qualsiasi comunità aliena.

«I giganti ti troveranno, qui». La voce di Tekka mostrava uno ostentato disinteresse. Poi, in un tono diverso: «Bella quella lancia».

«Sì. Apparteneva a Sterret. Con questa ho ferito il mio compagno. Forse è morto».

Il maschio la guardò con nuovo rispetto. Se la sua storia era vera… quella era una femmina da maneggiarsi con tutte le precauzioni. Inoltre…

«Me la daresti?».

«Sì… così». Weena fece il gesto di vibrare la lancia, con una risata cattiva. Non vi fu equivoco possibile, su ciò che intendeva.

«Non in questo modo», si affrettò ad aggiungere Tekka. «Senti, non molto tempo fa, nella nostra tribù, molte madri, due intere mani di madri con figli Diversi, sfidarono il giudice dei Neonati. Fuggirono lungo una galleria e adesso vivono laggiù, vicino al Luogo-delle-Piccole-Luci. Skarro non ha ancora condotto contro di loro una spedizione di guerra. Ebbene… non so, c’è sempre un gigante in quel posto. Può darsi che Skarro tema che un combattimento così vicino alla Barriera avverta i giganti della nostra presenza…».

«E tu mi condurresti là?».

«Sì. In cambio della lancia».

Weena restò silenziosa per molti battiti di cuore. Fintanto che non avesse voltato la schiena a Tekka sarebbe stata al sicuro. Non le venne mai in mente di lasciare che Tekka facesse quanto aveva promesso, rifiutandogli poi il pagamento. Il suo popolo era una razza semplice e schietta.

«Verrò con te», annui.

«D’accordo».

Gli occhi di Tekka fissarono a lungo e amorevolmente la bella lancia. Skarro non sarebbe rimasto capo ancora per molto.

«Per prima cosa», aggiunse, «dobbiamo tirar dentro la nostra galleria quello che hai lasciato della palla-buona-da-mangiare. Poi dovrò chiudere la porta, nel caso in cui arrivi un gigante…».

Insieme, tagliarono la palla in piccoli pezzi. Dietro a uno scomparto vuoto c’era una porta. Spinsero attraverso questa il fragrante fardello. Weena entrò per prima nella galleria, portando Shrick e la lancia. Poi venne Tekka, il quale spinse la porta rotonda al suo posto, dove combaciò perfettamente, senza che si vedesse il minimo segno che la Barriera era stata violata. Fece scorrere infine due rozze sbarre che fungevano da chiavistello.

«Seguimi», ordinò a Weena.

Il lungo viaggio attraverso le caverne e le gallerie fu un paradiso, al confronto di quello che Weena aveva compiuto nell’Interno. Qui non c’era luce — o, nel peggior dei casi, qualche lieve barlume che filtrava da piccoli buchi e fessure nella Barriera.

Pareva che Tekka la stesse guidando lungo le vie e le gallerie meno frequentate del paese di Skarro, poiché non incontrarono nessuno del suo popolo. Comunque, i sensi dicevano a Weena che si trovava in un territorio densamente popolato. Tutt’intorno a lei pulsavano le ondate calde e confortevoli della vita sempre uguale del Popolo. Sapeva che in comode caverne, maschi, femmine e i loro piccoli vivevano in piacevole intimità. Per un attimo fugace provò rincrescimento per aver buttato via tutto questo per il brutto e glabro fagottino che stringeva tra le braccia. Ma non avrebbe mai più potuto tornare alla sua tribù, e se avesse desiderato unirsi a quella comunità aliena, le alternative sarebbero state la morte o la schiavitù.

«Attenzione!» sibilò Tekka. «Ci stiamo avvicinando al loro paese».