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«Ma tu…».

«No, io mi fermo qui. Mi ucciderebbero. Basterà che tu prosegua diritta lungo questa galleria, e le troverai. Ora, dammi la lancia».

«Ma…».

«Tu sei al sicuro. È quello il tuo lasciapassare». Diede una lieve pacca a Shrick, che si agitava inquieto. «Su, dammi la lancia, e me ne andrò».

Riluttante, Weena gli consegnò l’arma. Tekka la prese senza dire una parola, poi se ne andò. Per brevi attimi Weena lo scorse alla fioca luce che filtrava in quel punto attraverso la Barriera: un vago profilo che svanì rapidamente nel grigiore. Si sentì smarrita, spaventata. Ma il dado era tratto. Lentamente, con cautela, riprese a strisciare lungo la galleria».

Quando la trovarono, urlò. Per molti battiti di cuore aveva percepito la loro odiosa presenza, aveva sentito che esseri ancora più alieni dei giganti si stavano stringendo intorno a lei. Una o due volte aveva chiamato, gridando che veniva in pace, che era la madre di un Diverso. Ma neppure l’eco le rispose, poiché la galleria, morbida e spugnosa, attutiva il suono acuto della sua voce. E il silenzio che non era silenzio era, se possibile, ancora più minaccioso.

Senza alcun preavviso, il terrore l’aggredì, furtivo. Weena lottò col coraggio della disperazione, ma fu sopraffatta dal numero esorbitante degli assalitori. Shrick, che protestava debolmente, fu strappato alla sua stretta frenetica. Le mani — e certo c’erano troppe mani rispetto al numero dei suoi assalitori — le inchiodarono le braccia sui fianchi, le chiusero le caviglie in una stretta che era una morsa. Incapace ormai di combattere guardò i suoi catturatori. Poi urlò di nuovo. La fioca luce le risparmiò misericordiosamente tutto l’orrore del loro aspetto, ma ciò che vide sarebbe stato sufficiente a infestare i suoi sogni fino al giorno della sua morte, se fosse riuscita a fuggire.

Morbide, quasi carezzevoli, quelle odiose mani scivolavano sopra il suo corpo con disgustosa intimità.

Poi… «È una Diversa».

Si permise un barlume di speranza.

«E il bambino?».

«Due-Code ha un neonato. Può nutrirlo».

E quando una lama affilata trovò la sua gola, Weena ebbe il tempo di rimpiangere amaramente d’esser venuta via dal suo mondo familiare e confortevole. Non tanto per la perdita della sua vita — che comunque aveva già sacrificato quando aveva osato sfidare Sterret — quanto perché si rendeva conto che Shrick, invece d’incontrare una morte pulita per mano della sua gente, avrebbe passato la sua vita fra quelle immonde mostruosità.

Poi vi fu un acuto dolore e una sensazione di totale impotenza, mentre la marea della sua vita rifluiva rapida e l’oscurità, che Weena aveva tanto amato, si chiudeva su di lei per sempre.

Senza-Pelo, che, alla sua nascita, era stato chiamato Shrick, giocherellava nervoso al suo posto di guardia a metà strada di quella che al suo Popolo era nota come Galleria Skarro. Era tempo, ormai, che Lungo-Naso venisse a dargli il cambio. Erano passati molti battiti di cuore da quando aveva sentito i rumori sull’altro lato della Barriera, i quali dicevano che il gigante nel Luogo-delle-Piccole-Luci era stato sostituito da un altro della sua razza. Ciò che i giganti facevano là dentro era un mistero — ma il Nuovo Popolo era giunto a riconoscere una strana regolarità nelle azioni di quegli esseri mostruosi e a regolare su di esse i propri tempi.

Senza-Pelo strinse ancora più forte la lancia — era fatta del materiale della Barriera, rozzamente appuntita a un’estremità — quando percepì l’avvicinarsi di qualcuno lungo la galleria che proveniva dalla direzione del paese di Tekka. Poteva essere un Diverso che portava un bambino che sarebbe diventato uno del Nuovo Popolo… o poteva essere un attacco. Ma, chissà perché, le confuse impressioni ricevute dalla sua mente non confermavano nessuna di queste supposizioni.

Senza-Pelo si appiatti contro la parete della galleria, il suo corpo affondò dentro il materiale spugnoso. Adesso riusciva a scorgere vagamente l’intruso — una forma solitaria che volteggiava furtiva tra le ombre. Il suo senso dell’olfatto gli disse che si trattava d’una femmina. Eppure era certo che non aveva nessun piccolo con lei. Il suo corpo divenne teso, pronto ad attaccare non appena l’estranea avesse superato il suo nascondiglio.

Cosa stupefacente, la femmina si arrestò.

«Vengo in pace», disse. «Sono una di voi. Sono…» e qui la sua voce fece una breve pausa, «… una del Nuovo Popolo».

Shrick non diede nessuna risposta, non tradì nessun movimento. Sapeva che era possibile, anche se il fatto era assai raro, che quella femmina possedesse una vista anormalmente acuta. Era assai più probabile che avesse percepito il suo odore. Ma, in ogni caso, come faceva a conoscere il nome col quale la gente del Nuovo Popolo definiva se stessa? Per il mondo esterno essi erano i Diversi — e se l’estranea si fosse proclamata tale, si sarebbe rivelata per un’aliena e la sua vita sarebbe stata subito condannata.

«Tu non puoi sapere», disse ancora la voce della femmina, «come mai ho chiamato me stessa col nome giusto. Nella mia tribù vengo chiamata una Diversa…».

«Allora, come mai», la voce di Senza-Pelo suonò trionfante, «ti hanno permesso di vivere?»

«Vieni da me! No, lascia la tua lancia. Adesso, vieni!».

Senza-Pelo piantò la sua arma nella morbida parete della galleria. Lentamente, quasi con timore, avanzò fino al punto in cui la femmina l’attendeva. Adesso poté vederla meglio — e non pareva differente dalle altre madri fuggiasche dei Diversi, del cui massacro tante volte era stato testimone. Il suo corpo era ben proporzionato e ricoperto d’una sottile peluria serica. La testa era ben formata. Fisicamente, era tanto normale da parer ripugnante al Nuovo Popolo.

Eppure… Senza-Pelo si trovò a paragonarla alle femmine della sua tribù, e con grande svantaggio per queste ultime. L’emozione, più che la ragione, gli disse che l’odio suscitato dalla vista d’un corpo normale era provocato da un radicato senso d’inferiorità, più che da qualunque altra cosa. E lui voleva quella straniera.

«No», lei disse, misurando le parole, «non è il mio corpo che è differente. È la mia testa. Non conoscevo me stessa fino a poco tempo fa, all’incirca due mani di nutrimento. Ma adesso posso dire ciò che passa dentro alla tua testa, o nella testa di chiunque del Popolo…».

«Ma», chiese lui, «come hanno potuto…».

«Ero matura per l’accoppiamento. Fui accoppiata a Trillo, il figlio di Tekka, il capo. E nella nostra caverna dissi a Trillo cose che soltanto lui poteva conoscere. Avevo pensato che ciò potesse fargli piacere, credevo che gli sarebbe piaciuto avere una compagna con poteri magici che lui avrebbe potuto usare nel migliore dei modi. Col mio aiuto, avrebbe potuto farsi eleggere capo. Ma s’infuriò — anzi, si spaventò moltissimo. Corse da Tekka, che subito mi giudicò una Diversa. Si preparavano ad uccidermi, ma sono riuscita a fuggire. Essi non hanno osato inseguirmi così lontano in questo paese…».

«Allora… tu mi vuoi?»

Era un’affermazione, più che una domanda.

«Sì…» fece lui, confuso. «Ma…»

«Senza-Coda? Morirà. Se lotterò con lei e vincerò, sarò la tua compagna».

Per un breve attimo, Senza-Pelo pensò, con una punta di rincrescimento, alla sua femmina. Era stata leale, paziente. Ma subito capì che, con quella straniera per nuova compagna, non c’erano limiti alla carriera che avrebbe potuto fare nella tribù. Non che lui fosse più intelligente o furbo di Trillo, ma, come membro del Nuovo Popolo, giudicava l’anormalità come qualcosa di perfettamente normale.

«Allora, mi prenderai con te?» Ancora una volta, non fu affatto una domanda. Poi: «Il mio nome è Wesel».

L’arrivo di Senza-Pelo con Wesel a rimorchio nel Luogo-d’Incontro non avrebbe potuto capitare nel momento più adatto. C’era un processo in corso, contro un giovane maschio di nome Grosse-Orecchie che era stato colto in flagrante nell’atto di rubare un prezioso pezzo di metallo nella caverna di un Quattro-Braccia. Lungo-Naso, che avrebbe dovuto dare il cambio a Senza-Pelo, aveva trovato assai più avvincente lo spettacolo di un processo (con la prospettiva del festino che ne sarebbe seguito) che dare il cambio a una solitaria sentinella.