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Si avviò, costeggiando la rimessa, mentre il sole gettava davanti a lui una lunga ombra nera. Arrivò alla porta dell’ufficio amministrativo e non avendo nulla da guadagnare a mostrarsi guardingo entrò sbattendo il battente.

Gli uffici erano deserti. Le scrivanie alle quali per secoli si erano seduti impiegati intenti a controllare fatture e bollette erano spoglie e prive di polvere. I calcolatori e i banchi-dati, di vetro e di smalto nero, sembravano arrivati il giorno prima.

Xanten attraversò la stanza diretto verso la grande lastra di vetro che lasciava vedere l’interno della rimessa.

Non c’era neanche un Mek. Però sul pavimento della rimessa erano disposti in file ben ordinate pezzi premontati dei comandi dell’astronave. I pannelli di servizio, aperti, mostravano le cavità dalle quali quei congegni erano stati tolti.

Xanten entrò nella rimessa. L’astronave era stata resa inutilizzabile. Guardò i pezzi disposti ordinatamente. Alcuni studiosi di vari castelli conoscevano bene la teoria del trasferimento spazio-temporale e addirittura S.X. Rosenbox di Marval aveva ricavato una serie di equazioni che, una volta tradotte in macchinari, sarebbero riuscite a eliminare il fastidioso effetto Hamus. Ma nessun nobile, pur mettendo da parte l’orgoglio e abbassandosi a prendere in mano un utensile, sarebbe stato in grado di sistemare, collegare e far funzionare quei congegni ammucchiati per terra.

Quella bell’impresa era stata fatta… quando? Non avrebbe saputo dirlo.

Xanten tornò nell’ufficio, lo attraversò e uscì dirigendosi verso la rimessa più vicina. I Mek non c’erano neanche lì e l’astronave aveva subito la stessa sorte dell’altra. Passò alla terza rimessa e trovò la medesima situazione.

Avvicinatosi alla quarta rimessa, invece, avvertì dei rumori attutiti. Entrato nell’ufficio vide tramite la parete di vetro i Mek che lavoravano come al solito con movimenti molto controllati in un silenzio strano e sconcertante.

Xanten, già infastidito per essersi dovuto muovere di soppiatto nella foresta, fu invaso dall’ira a vedere quella distruzione della sua proprietà. Entrò nella rimessa e picchiandosi una mano sulla coscia per attirare la loro attenzione urlò: — Rimettete subito a posto tutti quei congegni! Come osate comportarvi così, vermi?

I Mek volsero verso di lui i loro visi inespressivi guardandolo attraverso i grappoli di lenti nere che avevano ai lati del capo.

— Come? — urlò Xanten. — Esitate? — Fece schioccare la sferza d’acciaio sul pavimento, anche se ormai era diventata più un simbolo che un vero strumento di dolore. — Fate quello che vi ho detto! È finita la vostra rivolta!

I Mek erano ancora immobili e la situazione restava incerta. Non emettevano il minimo rumore, sebbene stessero comunicando tra di loro per decidere il da farsi. Ma Xanten non poteva sopportarlo. Avanzò a passo marziale con la sferza stretta in pugno e colpì i Mek nel loro punto debole: il volto corrugato.

— Al lavoro! — ruggì. — Ma che squadra di manutenzione siete mai! Sarebbe meglio parlare di squadra di distruzione!

I Mek emisero quel loro leggero suono soffiante che poteva significare qualsiasi cosa. Arretrarono e Xanten si accorse che uno di loro se ne stava in cima alla passerella dell’astronave. Era il Mek più grosso che avesse mai visto, ed era anche visibilmente diverso dagli altri. Stava puntandosi alla testa una pistola a pallottole. Con la massima calma Xanten colpì un altro Mek che si era fatto avanti e senza neanche prendere la mira sparò contro quello che stava immobile sulla passerella. Nello stesso istante una pallottola gli sfiorò sibilando la testa.

I Mek lo attaccarono avanzando tutti insieme. Disinvoltamente appoggiato allo scafo dell’astronave, Xanten li mise a terra a mano a mano che si facevano sotto, spostando all’occorrenza la testa per schivare una scheggia di metallo, o alzando un braccio per prendere al volo un coltello e gettarlo in faccia a chi lo aveva scagliato.

I Mek indietreggiarono e Xanten capì che si erano accordati su una tattica differente, anche se non gli era ancora chiaro se intendessero ritirarsi per recuperare le armi o per bloccarlo nella rimessa. A colpi di sferza si fece strada verso l’ufficio. Mentre alle sue spalle i Mek infrangevano la lastra di vetro attraversò la grande stanza e uscì all’aria notturna.

Stava sorgendo la luna piena, un enorme globo giallo che emanava una luminosità diffusa color zafferano, come una lampada antica. I Mek non si muovevano bene in assenza di luce e Xanten li aspettò dietro la porta. Appena uscivano, li colpiva al collo.

Quelli si ritrassero allora all’interno e Xanten, pulita la lama, se ne andò velocemente senza guardarsi intorno. A un certo punto si fermò, di colpo. Era appena calata la notte e qualcosa gli infastidiva la mente: il pensiero di quel Mek che gli aveva sparato. Se lo ricordava più grande degli altri e forse anche più scuro di pelle. In particolare gli era parso che avesse una certa autorità… anche se, per i Mek, era una parola assurda. Del resto qualcuno che aveva organizzato la rivolta c’era pure, qualcuno che per lo meno l’avesse concepita. Sarebbe stato meglio approfondire la cosa, anche se ormai la sua missione era terminata: aveva appreso tutto quello che gli interessava sapere.

Tornò sui suoi passi, attraversò la pista d’atterraggio e si diresse verso i garage. Nuovamente infastidito si rese conto che era meglio muoversi con cautela. Ma che tempi erano mai quelli, nei quali un nobile doveva girare di soppiatto per evitare l’incontro con i Mek! Sgattaiolò dietro i garage, dove una mezza dozzina di energovagoni erano immersi nel sonno.

Xanten si fermò a guardarli con attenzione. Erano simili tra loro, con quella struttura metallica a quattro ruote e, davanti, il vomere per aprire la terra. Lì vicino doveva esserci la riserva dello sciroppo e infatti ne trovò subito diversi recipienti. Ne caricò una dozzina sull’energovagone e tagliò gli altri con il coltello, per far riversare a terra lo sciroppo. Ma non era quello dei Mek: aveva una formula leggermente diversa. Probabilmente l’altro lo tenevano nelle caserme.

Xanten salì su un energovagone, girò la chiavetta del quadro e lo mise in moto facendolo andare all’indietro. L’energovagone si mosse pesantemente. Xanten lo diresse verso le caserme e poi fece altrettanto con gli altri. Uno dopo l’altro li mise tutti in moto. Con la loro avanzata provocarono squarci nelle pareti di metallo delle caserme, facendo vacillare persino il tetto. Continuarono ad avanzare attraversando gli edifici e stritolando tutto quello che ostacolava loro la strada.

Xanten fece un cenno d’assenso con grande soddisfazione e tornò verso l’energovagone che aveva lasciato per sé. Vi salì e aspettò. Nessun Mek uscì dalle caserme. Molto probabilmente erano tutti impegnati nelle rimesse. Riteneva che la maggior parte delle scorte di sciroppo fossero state distrutte e in tal caso la maggior parte di loro sarebbe morta di fame.

Un solo Mek uscì all’aperto, evidentemente incuriosito dal rumore. Xanten si abbassò sul sedile e quando quello gli passò accanto lo avvinghiò al collo con la sferza. Il Mek cadde a terra rotolando.

Xanten scese a sua volta dall’energovagone e si impossessò della pistola a pallottole. Notò subito che era grosso… e che era privo del sacco dello sciroppo. Un Mek originario, incredibile! Come poteva essere sopravvissuto? Ma ecco che all’improvviso gli si creavano nuovi problemi. Sperando di poterne risolvere qualcuno subito recise le antenne che spuntavano dalla parte posteriore della testa di quell’essere. Adesso il Mek era isolato, lasciato solo a se stesso… una situazione che rendeva apatico anche l’individuo più energico di quella razza.

— Forza — ordinò Xanten facendo schioccare la frusta. — Sali sul vagone.