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Dopo la morte del Signore, Andrew cominciò a vestirsi, dapprima con un paio di pantaloni datigli da George.

George adesso era sposato e faceva l’avvocato. Era entrato nello studio di Feingold. Il vecchio Feingold era morto da anni e lo studio assunse il nome Feingold-Martin, e tale rimase quando la figlia del vecchio Feingold si ritirò e nessuno della famiglia prese il suo posto. Quando Andrew cominciò a vestirsi, il nome Martin era stato aggiunto da poco allo studio.

La prima volta che Andrew infilò i calzoni, George fece uno sforzo per non sorridere, ma Andrew capì che ne avrebbe avuto una gran voglia.

George gli insegnò a manovrare la carica di energia statica che permetteva ai calzoni di aprirsi per adattarsi alla parte inferiore del suo corpo, e infine tornare a chiudersi.

— Ma perché vuoi metterti i calzoni? — gli chiese. — Hai un bellissimo corpo funzionale, e non capisco perché lo vuoi coprire, tanto più che non lo fai né per pudore né per tenerti caldo. E poi gli abiti non aderiscono bene al metallo.

— I corpi umani non sono forse belli e funzionali, George? — ribatté Andrew. — Eppure li coprite.

— Perché dobbiamo tenerci caldi, per pulizia, per protezione, per pudore, per essere eleganti. Tutte cose che non fanno al caso tuo.

— Senza vestiti mi sento nudo. Nudo e diverso.

— Diverso! Andrew, ci sono milioni di robot che svolgono le mansioni più svariate, al mondo. Forse ci sono più robot che uomini, a dar retta agli ultimi censimenti. E nessuno di loro indossa degli indumenti.

— Ma nessuno di loro è libero, George.

A poco a poco, Andrew aggiunse ai calzoni altri capi di vestiario, anche se il sorriso di George e delle persone che gli commissionavano qualche lavoro lo inibiva un poco.

Sebbene libero, nel suo cervello positronico erano profondamente radicati certi principi di comportamento nei confronti degli esseri umani, e lui osava progredire sulla strada che si era prefisso solo a piccoli passi. Se qualcuno lo disapprovava apertamente, era capace di lasciar passare dei mesi prima di azzardare un altro passo.

E non tutti lo trattavano da individuo libero. Lui non se ne risentiva ma, quando ci pensava, i suoi processi cerebrali si svolgevano con maggiore difficoltà.

Soprattutto evitava di indossare troppi indumenti quando andava a trovarlo la Piccola. Lei era vecchia, ormai, e spesso si assentava per lunghi periodi, ma quando tornava dai paesi dove la temperatura era più mite, andava sempre a trovarlo.

In una di quelle occasioni, George disse con una certa dose di rammarico: — Ce l’ha fatta, sai, Andrew. È riuscita a persuadermi a presentarmi candidato alle elezioni, l’anno prossimo. Tale il nonno, ha detto, tale il nipote.

— Tale il nonno… — ripeté Andrew, fermandosi confuso.

— Vuol dire che io, George, il nipote, sarò come il Signore, mio nonno, che era deputato.

— Sarebbe bello, George, se il Signore fosse… — s’interruppe non trovando la parola. — Se funzionasse ancora — concluse, incerto.

— Se fosse ancora vivo — lo corresse George. — Sì, ogni tanto penso al vecchio orco.

Andrew ripensò a quel colloquio. Aveva già notato che non sempre riusciva a esprimersi bene, quando parlava con George. Il modo di parlare era cambiato da quando lui era stato costruito. Inoltre George ricorreva spesso a frasi dialettali, cosa che il Signore e la Piccola non avevano mai fatto. E poi, perché chiamare orco il Signore? Non era una definizione adatta.

I libri non potevano dargli delucidazioni in merito, in quanto erano vecchi, e in genere si trattava di manuali specializzati di falegnameria, arte, arredo. Non ne aveva nessuno che spiegasse come si esprime la gente a viva voce.

Allora decise di cercarne, ma, essendo un robot libero, non volle incaricare George. Decise che sarebbe andato lui stesso alla biblioteca pubblica. Soddisfatto di quella decisione, sentì che il suo potenziale elettrico si era rafforzato come se gli fosse stato aggiunto un altro circuito di alimentazione.

Si vestì di tutto punto, compresa una tracolla a catena di legno. Lui ne avrebbe preferita una di plastica lucida, ma George gli aveva detto che il legno andava meglio e inoltre il cedro lucido valeva assai di più.

Aveva già messo una trentina di metri fra sé e la casa quando una resistenza entrò in funzione costringendolo a fermarsi. Spostò la «reattanza» e, constatando che non bastava, tornò a casa e scrisse con la sua bella calligrafia su un foglio: «Sono andato alla biblioteca», dopo di che mise il foglio sul banco di lavoro, bene in vista, e uscì di nuovo.

Andrew non arrivò mai alla biblioteca. Aveva esaminato la mappa. Conosceva la strada, ma la realtà era ben diversa dai trattini e dai simboli sulla mappa, e lui arrivò a dubitare di aver sbagliato itinerario, tanto tutto gli pareva strano.

Incontrò qualche robot intento al lavoro, ma quando decise finalmente di chiedere dove si trovava, non ce n’era nessuno in vista. Passò un veicolo, ma non si fermò. Andrew era incerto sul da farsi e rimaneva immobile e calmo, perché questo era il modo di manifestare la sua incertezza, quando vide che stavano arrivando due esseri umani. Si voltò nella loro direzione, e quelli deviarono per raggiungerlo. Poco prima li aveva sentiti parlare ad alta voce, ma adesso tacevano. Avevano quell’espressione che Andrew associava all’incertezza umana, ed erano abbastanza giovani, ma non troppo. Vent’anni, forse? Andrew non era mai riuscito a valutare l’età delle persone.

— Vorreste indicarmi la strada per raggiungere la biblioteca pubblica, signori? — chiese.

Uno dei due, il più alto, la cui statura era accentuata da un alto cappello, disse al compagno: — È un robot.

L’altro, che aveva il naso a patata e le palpebre grevi, fece schioccare le dita. — È il robot libero. Dai Martin c’è un robot che non appartiene a nessuno. Perché se no dovrebbe essere vestito?

— Chiediglielo — disse il compagno.

— Sei il robot Martin?

— Sono Andrew Martin, signore.

— Bene. Spogliati. I robot non portano indumenti — disse quello alto, e al suo amico: — Guardalo. È disgustoso.

Andrew esitava. Non aveva sentito un ordine dato in quel tono da talmente tanto tempo che i circuiti della Seconda Legge si erano momentaneamente inceppati.

Quello alto disse: — Spogliati. Te lo ordino.

Andrew cominciò lentamente a spogliarsi.

— Lasciali cadere a terra — ordinò quello alto.

E l’altro: — Se non appartiene a nessuno, possiamo prendercelo noi.

— D’altronde chi può dirci niente? — ribatté quello alto. — Non danneggiamo mica la proprietà di qualcuno… Mettiti a testa in giù — le ultime parole erano rivolte a Andrew.

— La testa non è fatta… — cominciò Andrew.

— È un ordine. Se non l’hai mai fatto, prova.

Andrew esitò, poi si chinò e, posando la testa per terra, cercò di sollevare le gambe pesanti, ma cadde goffamente.

— Resta lì — gli ordinò quello alto. — Possiamo smontarlo — disse all’amico. — Hai mai smontato un robot?

— Ma ci lascerà?

— Come può impedircelo?

Infatti Andrew non poteva fare niente per impedirlo, se glielo ordinavano con forza. La Seconda Legge dell’Obbedienza prevaleva sulla Terza dell’autoconservazione. E comunque non avrebbe potuto difendersi senza far loro del male, e ciò sarebbe stato contrario alla Prima Legge. Al solo pensarci le sue parti mobili si contrassero. E Andrew rabbrividì, senza muoversi.

Quello alto gli si avvicinò e lo spinse col piede. — È molto pesante. Ci vorranno degli utensili per smontarlo.

L’altro rispose: — Potremmo ordinargli di smontarsi. Sarebbe divertente starlo a guardare mentre lo fa.

— Sì — convenne l’amico — però togliamoci dalla strada. Se arriva qualcuno…

Troppo tardi. Infatti stava già arrivando qualcuno, e questo qualcuno era George. Andrew l’aveva visto risalire una collinetta, in distanza, e avrebbe già voluto chiamarlo, se non gli avessero ordinato di restare lì disteso immobile.