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Dov’era la polizia? Vidi degli agenti di tanto in tanto, alcuni che tentavano disperatamente di respingere la marea di disordine, altri che vi rinunciavano e si univano alla follia collettiva, poliziotti con i visi congestionati e gli occhi lucidi che si lanciavano nel mezzo della mischia e la facevano degenerare in una guerra selvaggia, poliziotti che compravano la droga agli angoli delle strade, poliziotti nudi fino alla cintola che abbrancavano le ragazze nude nei bar, poliziotti che sfasciavano i parabrezza delle macchine con i manganelli. La pazzia collettiva era contagiosa. Dopo una settimana di montature apocalittiche, di tensione grottesca, nessuno riusciva a mantenere il proprio equilibrio.

Mezzanotte mi trovò a “Times” Square. La vecchia usanza, da tanto tempo abbandonata in una città in decadenza: migliaia, centinaia di migliaia di persone ammassate a gomito a gomito, tra la 46a e la 42a, a cantare, urlare, baciarsi, ondeggiare. Improvvisamente batté la mezzanotte. Fasci di luce abbaglianti crivellarono il cielo. Le sommità dei grattacieli industriali furono illuminate da riflettori multicolori. L’anno 2000! L’anno 2000! Era il mio compleanno! Felice compleanno! Felice, felice, felice!

Ero ubriaco. Ero fuori di me. L’isterismo universale mi si scatenava dentro. Le mie mani si afferrarono al seno di una donna sconosciuta e lo strizzarono, sentii una bocca che si schiacciava contro la mia e un corpo caldo e umido che premeva forte il mio. La folla aumentava e noi due fummo trascinati lontano: mi mescolai alla marea umana, abbracciando, ridendo, lottando per riprendere fiato, saltando, cadendo, inciampando, finendo quasi sotto migliaia di piedi.

— Al fuoco! — gridò qualcuno e infatti vidi le fiamme danzare, alte, su un edificio a ovest lungo la 44a. Era di un colore così deliziosamente arancione che cominciammo tutti a lanciare urla di gioia e ad applaudire. Ci sentiamo tutti Nerone questa notte, pensai, e intanto fui trascinato avanti verso sud.

Non vedevo più le fiamme, ma l’odore acre di fumo si stava spargendo in tutta la zona. Sentivo suonare le campane, altre sirene. Caos, caos, caos.

Poi provai una sensazione come se mi avessero tirato un pugno dietro la testa, e caddi intontito, in uno spazio non affollato, mi coprii la faccia con le mani per parare il prossimo colpo, ma non arrivò nessun colpo, solo un’ondata di visioni. Visioni. Un torrente sconcertante di immagini mi turbinava nella mente. Mi vidi vecchio e smunto, scosso dalla tosse in un letto d’ospedale, circondato dalla lucente grata di un macchinario medico simile a una ragnatela; mi vidi nuotare in un limpido laghetto di montagna; mi vidi sbattuto e sollevato dalle onde su una sconvolta spiaggia tropicale. Sbirciai nel misterioso interno di qualche immenso e incomprensibile meccanismo di cristallo. Ero sul bordo di un campo di lava e osservavo un mare di materia liquefatta gorgogliare e ribollire come se fosse il primo mattino del mondo. I colori mi aggredivano. Voci mi parlavano in bisbigli, coglievo frammenti, brandelli polverizzati di parole e chiusure di frasi. È un “viaggio” mi dicevo, un “viaggio” molto brutto, ma alla fine anche il “viaggio” peggiore ha termine e mi rannicchiai, tremante, cercando di non resistere, lasciando che quell’incubo mi attraversasse e si esaurisse; forse durò delle ore. In un momento di lucidità dissi a me stesso: “Questo è ’vedere’, è così che comincia, come una febbre, una pazzia”. Ricordo di essermelo detto.

Poi scoppiò il tuono, l’ira di Giove, possente e incontestabile. Ci fu una perfetta immobilità dopo quel primo boato terrificante. In tutta la città i Saturnali subirono un arresto, mentre i newyorkesi si fermavano, pietrificati, con gli occhi stupiti e pieni di paura rivolti al cielo. Cosa succedeva? Il tuono in una notte d’inverno? Era il presagio che la terra si sarebbe squarciata inghiottendoci tutti? Il mare si sarebbe gonfiato fino a sommergerci e il nostro campo da gioco sarebbe diventato un’altra Atlantide? Un altro colpo di tuono seguì il primo, senza lampi, poi, dopo un attimo, ce ne fu un terzo e cominciò a piovere, una pioggia leggera all’inizio che si trasformò presto in un rovescio torrenziale, un caldo temporale primaverile che ci dava il benvenuto nel 2000. Barcollando, mi rialzai e, dopo essere rimasto vestito fino allora, mi spogliai, restando nudo a Broadway, nella 41a, con i piedi piantati a terra e la testa alzata verso il cielo, lasciando che la pioggia mi purificasse dal sudore, dalle lacrime e dalla stanchezza, lasciando che mi sciacquasse la bocca dal gusto acido del vomito. Fu un attimo stupendo. Ma subito sentii freddo. Aprile se ne stava andando ed era nuovamente dicembre. Stavo tremando dalla testa ai piedi. Abbrancai i vestiti fradici d’acqua; e, ormai sobrio, zuppo, avvilito, intimidito, immaginando banditi e borsaioli nascosti in ogni vicolo, mi misi in cammino, lentamente, trascinandomi per la città verso casa.

La temperatura sembrava diminuire di cinque gradi ogni dieci isolati; quando raggiunsi l’East Side mi sentivo congelato, e mentre attraversavo la 57a, notai che la pioggia si era trasformata in neve e la neve non si scioglieva, era come una leggera patina di polvere che copriva le strade, le automobili e i corpi immobili dei morti e di quelli privi di sensi. Nevicava con inclemenza tipicamente invernale quando arrivai a casa. Erano le cinque di mattina del 1° gennaio dell’anno 2000 dopo Cristo.

Lasciai cadere i vestiti a terra e crollai nudo sul letto, tremante e indolenzito, mi rannicchiai con le ginocchia strette contro il petto, aspettandomi quasi di morire prima dell’alba. Passarono quattordici ore prima che mi svegliassi.

39

Che giornata seguì! Fino alla sera del 1° gennaio non si riuscì a stabilire il bilancio della sfrenatezza e delle violenze della sera precedente, quante centinaia di cittadini avevano perso la vita nello scatenarsi selvaggio della violenza per sciocche disavventure o per semplice assideramento, quanti negozi erano stati saccheggiati, quanti monumenti pubblici sfregiati, quanti portafogli rubati, quanti corpi riluttanti violentati. Forse nessuna città, dal saccheggio di Bisanzio, aveva conosciuto una notte come quella. La plebaglia aveva dilagato, e nessuno aveva cercato di arginarne la furia, neppure la polizia. I primi rapporti spezzettati dicevano che gran parte dei poliziotti si erano uniti alla folla impazzita e dalle indagini più approfondite saltò fuori che era stato proprio così: nel contagio del momento gli uomini in blu avevano scatenato, invece di contenere, il caos. Con le ultime notizie arrivò anche la voce che l’assessore alla Polizia Sudakis, prendendo su di sé la completa responsabilità dell’accaduto, si era dimesso. Lo vidi in televisione, faccia rigida, occhi arrossati, carico di un’ira a malapena contenuta; parlò aspramente della vergogna che provava, del disonore, parlò dello sfacelo della moralità, persino del declino della civiltà urbana; sembrava uno che non avesse dormito per una settimana, un povero uomo imbarazzato e distrutto, che balbettava e tossiva, e io pregai in silenzio che quelli della televisione finissero in fretta e lo lasciassero andare. Le dimissioni di Sudakis costituivano la mia vendetta, ma non provavo piacere, non mentre quella faccia triste e devastata mi guardava dallo schermo. Finalmente la scena cambiò; furono inquadrate le macerie di cinque isolati di Brooklyn che erano bruciati sotto gli occhi di pompieri distratti. Sì, Sudakis aveva dato le dimissioni. Naturalmente. La realtà non si era smentita: l’infallibilità di Carvajal era stata confermata ancora una volta.