Attesi alcuni giorni, mentre la città tornava lentamente alla normalità; poi chiamai Lombroso al suo ufficio di Wall Street. Non c’era, naturalmente. Lasciai detto alla segreteria telefonica di farmi richiamare quando avesse avuto tempo. Tutti gli alti funzionari della città si trovavano con il sindaco a Gracie Mansion in seduta straordinaria continuata.
Gli incendi sviluppatisi in ogni distretto avevano lasciato migliaia di senzatetto; gli ospedali erano intasati da vittime di atti di violenza o di incidenti; le richieste di danni all’amministrazione, soprattutto per l’incapacità di fornire una protezione adeguata, erano già arrivate a bilioni di dollari e crescevano di ora in ora. Poi, bisognava provvedere a riparare il danno morale arrecato all’immagine pubblica della città. Da quando era stato eletto, Quinn aveva cercato pazientemente di ricostruire la reputazione di cui New York aveva goduto alla metà del XX secolo come la città più eccitante, viva e stimolante della nazione, la vera capitale del pianeta e il centro di tutto ciò che era interessante; una città emozionante ma nello stesso tempo sicura per i turisti. Tutto questo lavoro era andato distrutto in una sola notte orgiastica che si conformava al tradizionale concetto che la nazione aveva di New York come di un brutale, pazzo, feroce e lurido zoo. Così Lombroso non si fece vivo fino alla metà di gennaio, quando la situazione si era quasi completamente normalizzata e quando ormai non mi aspettavo più di sentirlo.
Mi parlò di quello che stava succedendo a City Halclass="underline" il sindaco stava preparando una serie di misure drastiche, quasi Gottfriediane, per il mantenimento dell’ordine pubblico. Il rinnovamento dei quadri della polizia sarebbe stato accelerato; il commercio della droga avrebbe subito limitazioni severissime come prima della liberalizzazione degli Anni ’80; un sistema di avviso immediato era stato progettato per intercettare i tumulti che coinvolgessero più di venti persone, eccetera, eccetera. Tutte queste misure mi sembrarono controproducenti, una risposta sconsiderata, irrazionale a un fatto isolato, unico, ma i miei consigli non erano più benaccetti e quindi tenni per me quello che pensavo.
— E Sudakis?
— Niente da fare. Quinn non ha accettato le sue dimissioni e ha passato tre giorni interi a cercare di persuaderlo a rimanere, ma Sudakis si considera screditato per sempre da quello che i suoi uomini hanno fatto quella notte. Ha accettato un posto poco importante in una cittadina della Pennsylvania ed è già partito.
— Non intendevo questo. Voglio dire, l’esattezza della mia previsione ha fatto cambiare parere a Quinn nei miei riguardi?
— Sì.
— Ha avuto un ripensamento.
— Pensa che tu sia uno stregone. Pensa che tu abbia venduto l’anima al diavolo. Letteralmente. Nonostante le sue idee moderne, è pur sempre un cattolico irlandese, non dimenticarlo. Nei momenti di tensione, la sua vera natura viene fuori. A City Hall sei ormai diventato un anticristo, Lew.
— Ha perso la ragione a tal punto da non capire che gli potrebbe tornare utile avere vicino qualcuno che lo può informare su questioni come le dimissioni di Sudakis?
— Nessuna speranza, Lew. Non credere neppure per un attimo di potere ancora lavorare per Quinn. Toglitelo dalla testa. Non pensare più a lui, non gli scrivere, non cercarlo, non tentare mai più di avere a che fare con lui. Anzi, forse è meglio che tu prenda in considerazione la possibilità di lasciare New York.
— Gesù. Ma perché?
— Per il tuo bene.
— Cosa diavolo significa tutto questo? Stai cercando di farmi capire che sono in pericolo, che Quinn potrebbe farmi qualcosa?
— Non sto cercando di dirti niente — ribatté nervosamente.
— Qualunque cosa tu voglia dirmi, non ci credo. Non credo che Quinn abbia tanta paura di me come dici tu, e mi rifiuto categoricamente di credere che potrebbe intraprendere qualche azione contro di me. È assurdo. Conosco quell’uomo. Sono stato praticamente il suo alter ego per quattro anni. Io…
— Stammi a sentire, Lew. Adesso devo interrompere la comunicazione. Non puoi immaginare quanto lavoro abbiamo da sbrigare.
— D’accordo. Grazie per avermi richiamato.
— E… Lew…
— Sì.
— Sarebbe meglio che non mi cercassi più. Nemmeno al numero di Wall Street. Tranne in caso di estrema urgenza, si capisce. Anche la mia posizione con Quinn si è fatta delicata da quando abbiamo cercato di far funzionare quel piano per procura, e adesso… adesso… be’, capisci, vero? Sono sicuro che mi capisci.
40
Capii. Ho risparmiato a Lombroso i pericoli di altre telefonate da parte mia. Sono passati quasi undici mesi dal giorno della nostra conversazione e in tutto questo periodo non gli ho più parlato, neppure una parola con l’uomo che era stato l’amico più intimo durante i miei anni nell’amministrazione di Quinn. Così come non ho più avuto nessun contatto, diretto o indiretto, con lo stesso Quinn.
41
Le visioni cominciarono a febbraio. Ne avevo avuto un’anticipazione sulla scogliera di Big Sur e un’altra a “Times” Square nella notte di Capodanno, ma adesso diventarono parte della routine giornaliera. “Nessuno può squarciare l’immenso, nero velo incerto” dice il poeta “perché non c’è luce dietro la tenda”. Oh, la luce, la luce, la luce è là! E illuminò le mie giornate invernali. All’inizio le visioni mi apparivano non richieste, come attacchi epilettici, solitamente nel tardo pomeriggio o poco prima di mezzanotte, annunciandosi con un colpo alla nuca, una sensazione di calore, di solletico che non mi lasciava. Presto imparai la tecnica per provocarle e potevo quindi “vedere” quando volevo. Anche allora, però, riuscivo a “vedere”, al massimo, una volta al giorno, con un prolungato periodo di ricupero dopo ogni volta. Nel giro di poche settimane, tuttavia, fui capace di entrare nello stato di “visione” più prontamente — due o anche tre volte al giorno — come se il potere fosse un muscolo che si sviluppa con l’uso. Alla fine l’intervallo di ricupero diventò minimo. Adesso posso attivare la mia facoltà ogni quindici minuti, se me la sento. Una volta, per fare un esperimento, verso l’inizio di marzo, provai ad attivarla e disattivarla costantemente per diverse ore, stancandomi molto, ma senza diminuire l’intensità di ciò che “vedevo”.
Se mi capita di non evocare io stesso le visioni almeno una volta al giorno, esse mi vengono comunque, comparendomi spontaneamente, rovesciandosi, non chiamate, nella mia mente.
42
“Vedo” una casetta rivestita di legno rosso in un sentiero di campagna. Gli alberi sono coperti di foglie verde intenso; dev’essere fine estate. Ho i capelli ancora corti e ispidi, ma stanno crescendo; questa scena deve venire da un futuro non molto lontano. Ci sono con me due giovani, uno magro e scuro di capelli, l’altro robusto e con i capelli rossi.
Non ho idea di chi siano, ma il me stesso che “vedo” è rilassato e a suo agio con loro, come se fossero amici intimi.
Quindi sono degli amici che devo ancora incontrare. “Vedo” me stesso togliere una chiave di tasca. “Vi faccio vedere il posto” dico. “Penso che sia proprio quello che ci vuole per il quartiere generale del Centro.”
Sta nevicando. Le automobili nelle strade sono a forma di proiettile, con la punta schiacciata, molto piccole e molto strane. In alto volteggia una specie di elicottero. Vi spuntano tre cose simili a pagaie e in cima a ciascuna mi sembra siano posti degli altoparlanti. Da tutti e tre contemporaneamente esce un lamento piagnucoloso, alto ma dolce, per un periodo di forse due secondi seguito da un intervallo di cinque secondi di silenzio. Il ritmo è perfettamente equilibrato, ogni suono arriva in tempo perfetto e taglia facilmente il turbinio dei fiocchi di neve. L’elicottero sorvola lentamente la Quinta Avenue a un’altezza di neppure 500 metri, e mentre si dirige verso nord, la neve si scioglie nella sua scia, aprendo un solco della stessa larghezza della Avenue.