— Mi chiedo se sappia cantare — osservò Autumn con aria pensosa.
— Vi piacerebbe fare qualche duetto con lui?
— Isotta e Tristano. Turandot e Calaf. Aida e Radames.
— Ammirate le sue idee politiche?
— Sì, se sapessi quali sono.
— È liberale e onesto.
— Allora ammiro le sue idee politiche. Inoltre trovo che sia estremamente virile e superbamente bello.
— Dicono che i politici che vogliono fare carriera non valgono molto come amanti.
Lei si strinse nelle spalle.
— Non mi lascio impressionare dalle dicerie. A me basta guardare un uomo, un’occhiata sola, per capire se è un amante in gamba.
— Grazie.
— Risparmiate i complimenti. A volte mi sbaglio, naturalmente — aggiunse con un sorriso velenoso. — Non sempre, ma capita, a volte.
— Ogni tanto mi sbaglio anch’io.
— Sulle donne?
— Su tutto. Io sono dotato di una seconda vista, sapete. Il futuro è un libro aperto per me.
— Sembra che diciate sul serio.
— Dico sul serio. È così che mi guadagno da vivere. Facendo previsioni.
— Cosa vedete nel mio futuro? — si affrettò a chiedere lei, schiva e ansiosa nello stesso tempo.
— Per l’immediato futuro, vedo una notte di orge selvagge e una tranquilla passeggiata mattutina sotto una leggera pioggerella. In distanza, vedo trionfi su trionfi, la celebrità, una villa a Majorca, due divorzi e la felicità avanti negli anni.
— Siete dunque uno zingaro indovino?
Scossi la testa.
— Sono solo un tecnico stocastico, madame.
Lei guardò Quinn.
— E nel suo futuro, cosa vedete?
— Lui? Lui diventerà presidente. Come minimo.
7
Non ci fu un seguito immediato al mio incontro con Paul Quinn, né io me l’aspettavo. In quel periodo la vita politica di New York era soggetta a tumultuosi cambiamenti. Solo poche settimane prima della festa di Sarkisian, un disoccupato furibondo aveva avvicinato il sindaco Gottfried a un banchetto del Partito Liberale e in faccia all’attonito sindaco sostituì il piatto di pompelmo con un grammo di “ascenseur”, il nuovo esplosivo politico francese. Bilancio delle vittime della clamorosa esplosione: Suo Onore, l’assassino, quattro presidenti di contea e un cameriere. La cosa provocò un vuoto di potere in città, perché tutti pensavano che il formidabile sindaco sarebbe stato rieletto ancora quattro o cinque volte, e di colpo l’invincibile Gottfried non c’era più, come se Dio fosse morto una domenica mattina proprio mentre il cardinale si accingeva a distribuire il pane e il vino. Il nuovo sindaco, l’ex presidente del Consiglio Municipale DiLaurenzio, era una nullità. Era dato per scontato che DiLaurenzio fosse una figura di transizione e che, nelle elezioni del ’97 per la carica di sindaco, avrebbe ceduto il posto a qualsiasi candidato sufficientemente forte. E Quinn stava aspettando tra le quinte.
Non seppi più niente di lui per tutto l’autunno. Il potere legislativo stava deliberando e Quinn era alla sua scrivania ad Albany, che è come starsene su Marte, tanto poco se ne interessano quelli di New York. In città il solito folle carrozzone stava andando avanti a tutta velocità, solo un po’ più convulso ora che era uscita di scena quella potente forza freudiana che era il sindaco Gottfried, il Dio Cittadino, dalle sopracciglia scure e il naso lungo, angelo custode dei deboli e persecutore degli insubordinati. La Milizia della 125a Strada, un nuovo gruppo militare negro che si era autopromosso a esercito e che per mesi si era vantato di comprare carri armati dalla Siria, non solo presentò tre di quei mostri corazzati durante un’agitatissima conferenza stampa, ma arrivò al punto di inviarli attraverso Columbus Avenue in una missione di distruzione a Hispano-Manhattan con il risultato di lasciare quattro isolati in fiamme e dozzine di morti. In ottobre, mentre i negri celebravano la Giornata di Marcus Garvey, i portoricani resero pan per focaccia con l’incursione di diversi commandos ad Harlem. I gruppi terroristici, con un’azione improvvisa che arrivò fino a Lenox Avenue, non solo fecero saltare per aria l’hangar dei carri armati e tutti e tre i mezzi corazzati, ma devastarono anche cinque negozi di liquori e il principale centro elettronico “Numbers”, mentre un gruppo diversivo riusciva a dirigersi verso ovest dove lanciò bombe incendiarie sull’Apollo Theater.
Poche settimane dopo, vicino alla sede dell’Impianto dì Fusione della 23a Strada Ovest ci fu una sparatoria tra il gruppo favorevole al progetto, il Movimento A Favore Della Città Splendente, e gli antifusionisti, il Comitato Contro La Tecnologia Incontrollata. Quattro delle guardie di sicurezza di Con Edison furono linciate e ci furono trentadue morti tra i dimostranti, ventuno tra gli uomini del Movimento e undici tra quelli del Comitato, tra cui molte madri appartenenti a entrambi i gruppi e alcuni bambini; la tragedia provocò raccapriccio e un grande scalpore (persino in una città dura come New York l’uccisione di alcuni bambini durante una dimostrazione può provocare orrore) e il sindaco DiLaurenzio, come ripiego, incaricò un gruppo di studio di riesaminare la convenienza di costruire impianti di fusione dentro i confini della città. Poiché questa decisione equivaleva a una vittoria per il Comitato, un gruppo di dimostranti del Movimento assediarono il Municipio e, per protesta, cominciarono a piazzare delle mine nei cespugli, ma furono dispersi da un bombardamento aereo di un elicottero della Polizia Tattica che provocò la morte di altre nove persone.
Il “Times” riportò la notizia a pagina 27.
Il sindaco DiLaurenzio, parlando dal suo Municipio Ausiliario situato nei Bronx orientali — aveva aperto sette uffici in zone periferiche, tutti in distretti italiani, la cui esatta posizione era tenuta accuratamente segreta — rinnovò gli inviti all’ordine e al rispetto della legge. Tuttavia, nessuno in città gli prestava molta attenzione, in parte perché il nuovo sindaco era una nullità e in parte per reazione alla scomparsa della presenza protettiva, sinistra e opprimente di Gottfried, il Gauleiter per eccellenza. Un articolo di fondo del “Wall Street Journal” suggeriva di sospendere l’imminente elezione del sindaco, di porre New York sotto un’amministrazione militare, e di stabilire un “cordone sanitario” che impedisse al “newyorkismo” infettivo di contagiare il resto del paese.
— Io sono convinta che l’esercito delle Nazioni Unite per il mantenimento dell’ordine pubblico sarebbe un’idea migliore — affermò Sundara.
Si era all’inizio di dicembre, la sera della prima nevicata stagionale. — Questa non è una città, è il palcoscenico di tutte le ostilità razziali ed etniche accumulate negli ultimi tremila anni.
— No, non è così — ribattei io. — I vecchi rancori non significano un accidente di niente a New York. Gli indù vanno a letto con i pakistani, turchi e armeni si mettono in società e aprono ristoranti. In questa città siamo noi a inventare nuove ostilità etniche. New York deve essere sempre all’avanguardia, in tutto. Lo capiresti anche tu se avessi vissuto qui tutta la vita come me.
— Mi sento come fosse davvero così.
— Sei anni non possono fare di te una del posto.
— Sei anni passati nel mezzo di una continua guerriglia significano più di trent’anni in qualsiasi altro posto.
La voce era scherzosa ma i suoi occhi scuri avevano un bagliore malinconico. Mi stava sfidando a schivare, contraddire, rintuzzare. Sentivo l’aria intorno a me diventare incandescente e febbrile. Di colpo, ci stavamo di nuovo impegolando nella discussione io-odio-New-York che creava sempre delle incrinature nel nostro rapporto, e ben presto ci saremmo ritrovati a litigare sul serio. Un indigeno può odiare New York con amore; uno straniero, e la mia Sundara sarebbe sempre rimasta una straniera in questa città, mette sempre una foga eccessiva nel ripudiare questo posto da pazzi in cui ha scelto di vivere e si gonfia di un’ingiusta furia omicida.