Nel tentativo di eludere l’inevitabile lite, dissi: — Va bene, allora, andiamo a vivere in Arizona.
— Ehi, ma quella è la mia battuta!
— Oh, scusami, devo aver perso la mia parte.
La tensione se ne era andata.
— Ma è davvero una città orribile, Lew.
— Prova Tucson, allora. Gli inverni sono molto più miti. Vuoi fumare, amore?
— Sì, ma sono stufa di osso.
Una bella, semplice fumata d’erba come tanto tempo fa, allora?
— Sì, grazie.
Presi l’erba che avevo messo da parte. L’atmosfera era limpida e piena d’amore. Stavamo insième da quattro anni e, nonostante alcune incomprensioni, eravamo ancora il migliore amico l’uno dell’altra. Mentre preparavo le sigarette, lei mi massaggiava i muscoli del collo, premendo sapientemente sui punti sensibili e facendo scivolare via dai legamenti e dalle vertebre i problemi del XX secolo. I suoi erano originari di Bombay ma Sundara era nata a Los Angeles, eppure le sue agili dita giocavano sul mio corpo come se lei fosse stata una padmini dell’aurora indù, una geisha estremamente abile nei giochi erotici della carne, come in effetti era.
I terrori e i traumi di New York sembravano colpevolmente lontani mentre stavamo lì fermi davanti alla lunga finestra di cristallo, stretti l’una all’altro, fissando la notte invernale invasa dal chiarore della luna e vedendo, in realtà, solo le nostre immagini riflesse: un uomo alto dai capelli biondi e una sottile donna bruna, a fianco a fianco, alleati contro l’oscurità.
Ci passavamo la sigaretta, lasciando che le nostre dita si accarezzassero languidamente a ogni passaggio. In quel momento Sundara mi sembrava perfetta, la mia donna, il mio amore, l’altro me stesso, intelligente e splendida, misteriosa ed esotica, con la fronte alta, i capelli nero-azzurri, il viso di luna, ma una luna in eclissi, una luna imporporata dall’ombra; la perfetta donna-lotus delle raccolte di aforismi, pelle fine e morbida, occhi lucenti e belli come quelli di un cerbiatto, ben disegnati e rossi ai lati, seni sodi, pieni e diritti, collo elegante, naso lungo e ben fatto. “Yoni” simile a un germoglio di lotus in fiore, voce bassa e melodiosa come quella di un uccello “kokila”, il mio scopo, il mio amore, la mia compagna, la mia moglie straniera. Nel giro di dodici ore avrei cominciato a perderla ed è forse per questo che la studiai con tale intensità quella notte d’inverno; eppure non sapevo niente di quello che sarebbe successo, niente. E solo io avrei potuto saperlo.
In un delirio di visioni ci lasciammo cadere sul ruvido e irregolare divano rosso e giallo che si trovava di fronte alla finestra grande. C’era luna piena, gelido faro bianco che spazzava la città con la sua luce trasparente come il ghiaccio. Fuori i fiocchi di neve brillavano, cadendo in volute vorticose. Dal posto in cui eravamo si vedevano le torri illuminate dal centro di Brooklyn, esattamente al di là del porto. Lontana, esotica Brooklyn, fosca Brooklyn, Brooklyn dalle zanne e dagli artigli arrossati. Chissà cosa stava accadendo quella notte, nella giungla di quelle luride strade, dietro l’abbagliante facciata della rispettabilità? Chissà quali aggressioni da cui qualcuno sarebbe uscito storpiato, un altro strozzato, un altro ancora crivellato dai colpi di una pistola, chissà quali vantaggi e quali perdite? Mentre noi nascondevamo la mente sublimata nella nostra calda e felice intimità, i meno privilegiati, in quel deprimente distretto, stavano sperimentando la vera New York. Bande di scippatori di sette anni, in Flatbush Avenue, sfidavano la neve e assalivano vedove dagli occhi stanchi che se ne tornavano a casa, ragazzi armati di torce munite di aghi elettrici tagliavano allegramente le sbarre delle gabbie dei leoni nello Zoo di Prospect Park, e bande rivali di prostitute appena adolescenti dalle cosce nude e semicoperte da vistose sottovesti termiche e diademi di alluminio in testa, si affrontavano per la loro abituale contesa territoriale alla Grand Army Plaza. Ecco a te, cara vecchia New York. E a te, sindaco DiLaurenzio, benevolo e fiducioso condottiero imprevisto. E a te, Sundara, amore mio.
Anche questo è New York: i giovani, belli, ricchi, tranquilli e sereni nelle loro torri riscaldate, loro che sono i creatori, gli inventori, i modellatori, gli eletti degli dei. Se noi non esistessimo, questa non sarebbe New York, ma solo un enorme e ostile accampamento di poveri sofferenti e disadattati, vittime dell’olocausto urbano; il crimine e il sudiciume da soli non fanno New York. Ci deve essere anche l’incantesimo della ricchezza e, bene o male, Sundara ed io ne facevamo parte.
Giove rovesciò una rumorosa manciata di grandine sulla nostra finestra inaccessibile. Scoppiammo a ridere. Le mie mani scivolarono sui suoi lisci e piccoli seni con i capezzoli turgidi, e con la punta del piede accesi il registratore: dagli amplificatori giunse la voce bassa e musicale di Sundara. Era la registrazione di una lettura del Kama Sutra.
“Capitolo Sette. I vari modi di colpire una donna e i suoni di accompagnamento. Il rapporto sessuale può essere paragonato a un litigio tra amanti, a causa delle piccole contrarietà provocate con estrema facilità dall’amore e dalla tendenza da parte di due individui appassionati a passare rapidamente dall’amore all’ira. Al culmine della passione capita che spesso si colpisca il corpo dell’amante; le parti del corpo che dovrebbero essere prese di mira da questi colpi di amore sono: le spalle — il capo — la zona tra i seni — la schiena — la ’jaghana’ — i fianchi. Inoltre, ci sono quattro modi di colpire l’amante: con le dita leggermente contratte — con il pugno — con il rovescio della mano con l’interno della mano. Questi colpi sono dolorosi e la persona percossa a volte emette un grido di pena. Esistono otto suoni che esprimono tormento mescolato a piacere e che corrispondono ai differenti tipi di colpi. I suoni sono: hinn — phoutt — phatt — soutt — platt…”
Così, quando toccai la sua pelle e la sua pelle toccò la mia, Sundara sorrise e mormorò all’unisono con la sua voce registrata, ma con un tono più profondo: — Hinn… phoutt… soutt…
8
La mattina seguente, alle otto e mezzo ero già in ufficio e Haig Mardikian mi telefonò alle nove esatte.
— Prendi davvero cinquanta dollari all’ora?
— Ci provo.
— Ho un lavoro molto interessante per te, ma il tipo in questione non può arrivare a cinquanta dollari.
— Chi è il tipo? Che lavoro?
— Paul Quinn. Ha bisogno di qualcuno che elabori i dati e organizzi la campagna elettorale.
— Si presenta per l’elezione del sindaco?
— Quinn pensa che gli sarà facile battere DiLaurenzio nella primaria e i repubblicani non hanno nessuno. È quindi il momento giusto perché faccia la sua mossa.
— Certo. Sarebbe un lavoro a tempo pieno?
— Per tutto il prossimo anno no, ma dall’inverno del ’96 fino all’elezione del ’97 sarà a tempo pieno. Puoi lasciar perdere i tuoi piani a lunga scadenza?
— Non si tratta solo di una consulenza, Haig. Significa entrare in politica.
— E allora?
— A che cosa mi serve?
— A nessuno serve niente, tranne un po’ di cibo e di acqua di tanto in tanto. Per tutto il resto è una questione di preferenze.
— Odio la vita politica, Haig, soprattutto quella locale. Ne ho vista abbastanza facendo il mio lavoro indipendente. Bisogna ingoiare tanti di quei rospi. Accettare i compromessi più sporchi. Bisogna essere disposti a esporsi…
— Non ti stiamo chiedendo di presentarti come candidato, ragazzo. Solo di aiutarci a progettare la campagna.