Выбрать главу

Ciascuno ha qualche ossessione, qualche fissazione che diventa un’armatura a guardia della sua vita: così ci trasformiamo in collezionisti di francobolli, esperti di giardinaggio, ciclisti volanti, maratoneti, cocainomani, maniaci sessuali. Tutti noi abbiamo lo stesso vuoto dentro e ciascuno cerca di riempirlo essenzialmente nello stesso modo, e non ha importanza che tipo di riempitivo scegliamo. Quello che intendo dire è che adottiamo la cura che preferiamo, ma soffriamo tutti della stessa malattia.

Così facevo sogni popolati dal presidente Quinn. Innanzi tutto, pensavo che ne fosse degno. Non era solo un capo irresistibile; era anche umano, sincero e sensibile alle necessità della gente. (La sua filosofia politica, cioè, si avvicinava molto alla mia.) Inoltre, cominciavo a scoprire in me stesso il bisogno di essere coinvolto nel miglioramento delle carriere altrui, di dare la scalata al successo all’ombra di qualcun altro, mettendo tranquillamente le mie capacità stocastiche al servizio degli altri. Provavo un sottile e segreto piacere, che nasceva da una complessa brama di potere mescolata a un desiderio di rimanere nell’ombra, cioè la sensazione di essere meno vulnerabile quanto meno ero visibile. Io non avrei potuto diventare presidente, non ero disposto a sopportare l’agitazione, l’uso del potere, l’esposizione continua e quel feroce e gratuito odio che il pubblico così facilmente riversa su coloro che cercano il suo amore. Ma lavorando sodo per far eleggere Quinn sarei entrato comunque alla Casa Bianca, dalla porta di servìzio, senza dovermi denudare completamente agli occhi altrui, senza correre i veri rischi. Ecco la radice della mia ossessione portata alla luce. Volevo usare Paul Quinn e lasciare che pensasse che era lui a usare me. Avevo identificato me stesso con lui: era, per me, il mio alter ego, la mia maschera ambulante, il mio uomo di paglia, il mio burattino. Volevo governare. Volevo il potere. Volevo diventare Presidente, Re, Imperatore, Papa, Dalai Lama. Tramite Quinn ci sarei arrivato nell’unico modo possibile. Avrei tirato io le redini dell’uomo che teneva le redini. Così io sarei diventato mio padre e l’affettuoso papà di ciascuno.

11

Alla fine di marzo, 1999, ci fu una giornata di gran freddo. Era iniziata come tutti gli altri giorni da quando lavoravo per Quinn, ma poi prese un binario imprevisto prima del pomeriggio. Mi ero alzato alle sette e un quarto, come al solito. Rapida colazione, fuori casa alle otto in tempo per prendere la corsa per Manhattan. Prima feci un salto al mio ufficio nei quartieri alti, il vecchio ufficio della Lew Nichols Associates che continuavo a tenere in funzione con un personale ridotto al minimo finché fossi rimasto nell’amministrazione municipale. Lì mi occupai delle solite analisi di progetti di minore importanza amministrativa: la costruzione di una nuova scuola, la chiusura di un vecchio ospedale, cambiamenti nella disposizione delle varie zone per poter costruire, in un distretto residenziale, un nuovo centro di eliminazione per i drogati con lesioni al cervello, tutte cose di poco conto, ma in potenza esplosive in una città in cui i nervi di ciascuno erano tesi oltre ogni speranza di rilassamento e piccole contrarietà diventavano subito mortificazioni insopportabili. Quindi, intorno a mezzogiorno, mi diressi in centro, all’Edificio Municipale, dove dovevo incontrare Bob Lombroso e fare colazione con lui.

— Il signor Lombroso sta parlando con un visitatore nel suo studio — mi disse la segretaria — ma vuole che lo raggiungiate ugualmente.

Lo studio di Lombroso era un palcoscenico adatto alla sua persona. Lui era un uomo alto, ben fatto, di circa quarant’armi, con un aspetto in un certo senso teatrale, una figura imponente dagli scurì capelli ondulati leggermente brizzolati alle tempie, una fitta barba nera, sorriso smagliante e il modo di fare energico e veemente di un mercante di tappeti di successo. L’ufficio, cancellato a sue spese lo stile Primo Burocrate, era un ricco studio levantino, caldo e fragrante, con le lucenti pareti rivestite di cuoio, folti tappeti, pesanti tendaggi di velluto marrone, lampade spagnole di bronzo opaco traforato in mille punti, una lucida scrivania intarsiata di diversi legni scuri con placche di marocchino lavorato, grandi anfore cinesi bianche sul pavimento, e, in una vetrinetta barocca, la sua adorata collezione di oggetti ebraici del Medioevo, corone, corazze di argento e fermagli pure in argento per il rotolo di pergamena della Legge, tende ricamate provenienti da sinagoghe tunisine o iraniane, lampade Sabbath di filigrana, bastoncini di candele, scatole per aromi, candelabri. In questo santuario di clausura impregnato di odore di muschio, Lombroso regnava sul fisco municipale come un principe di Sion: male incolga agli sciocchi Gentili che disdegnano le sue delibere.

Il suo visitatore era un ometto dall’aspetto avvizzito, di cinquanta o sessant’anni, una persona insignificante con la testa stretta e lunga ricoperta qua e là da ciuffi di corti capelli grigi. Era vestito così semplicemente, in un vecchio e logoro completo marrone risalente probabilmente all’epoca Eisenhower, che faceva apparire l’eleganza pratica e agile di Lombroso di una stravaganza estremamente vanitosa e mi faceva sentire un figurino nel mio mantello color bruciato con cuciture di rame, di cinque anni prima. Sedeva tranquillo e sgraziato, con le mani intrecciate.

Aveva un aspetto anonimo, quasi invisibile, uno dei tanti Smith del mondo e la sua pelle aveva un colore plumbeo, la carne delle guance era molliccia, mostrando una stanchezza sia fisica che spirituale. Il tempo aveva svuotato quell’uomo di qualsiasi forza potesse avere avuto un tempo.

— Ti presento Martin Carvajal, Lew — disse Lombroso.

Carvajal si alzò e mi strinse la mano. La sua era gelida.

— È un piacere conoscervi finalmente, signor Nichols — esclamò Carvajal con voce mite e come intorpidita, che mi giunse dall’altra estremità dell’universo.

Il suo cerimonioso modo di parlare era strano. Mi chiesi cosa facesse in quel posto. Sembrava così inerte e apatico, il tipo del piccolo burocrate o, più verosimilmente, poteva essere qualche zio povero di Lombroso venuto a ritirare il suo quid mensile.

Ma Carvajal non era affatto il relitto che io pensavo. Già al momento della nostra stretta di mano, sembrò avere un improbabile ritorno di forza; si drizzò, i lineamenti del viso si fecero più tesi, una vampa improvvisa gli illuminò la carnagione. Solo gli occhi, pallidi e senza vita, tradivano ancora l’interna assenza di vita.

Calcando le parole, Lombroso disse: — Il signor Carvajal è stato uno dei nostri contribuenti più generosi durante la campagna elettorale — e mi lanciò una persuasiva occhiata fenicia che significava: “Trattalo bene, Lew, vogliamo da lui altri soldi”.

Che quello sconosciuto scialbo e logoro fosse un ricco benefattore, una persona da lusingare e lisciare e ammettere nel sancta sanctorum di un funzionario oberato dal lavoro mi scosse profondamente, perché raramente mi ero sbagliato in modo così completo nel giudicare una persona. Riuscii, comunque, a elargirgli un largo sorriso e chiesi: — In che campo trattate, signor Carvajal?

— Investimenti.

— Uno degli speculatori privati più astuti e di successo che abbia mai conosciuto — disse Lombroso.

Carvajal annuì con aria compiaciuta.

— Guadagnate tutto il vostro denaro in Borsa? — chiesi io.

— Tutto.

— Non pensavo che qualcuno riuscisse davvero a fare una cosa simile.

— Certo che si può fare.

Il suo tono era velato e rauco, un mormorio dall’oltretomba.

— Tutto quello che ci vuole è una buona conoscenza degli orientamenti e un po’ di coraggio. Non avete mai fatto delle operazioni in Borsa, signor Nichols?

— Qualcuna, ma piccola.

— Ve la siete cavata bene?

— Abbastanza. Anch’io conosco abbastanza bene gli orientamenti. Ma non mi sento a mio agio quando cominciano a spuntare le oscillazioni davvero incontrollate.