— Qualunque cosa sia — lo interruppi — le Tombe del Tempo e lo Shrike provengono da qui?
— Le Tombe, di sicuro. Non conosco lo Shrike. Personalmente ritengo che sia un mito alimentato dalla stessa fame di verità superstiziose che spinge altre religioni.
— Anche dopo quel che è accaduto a Rachel? Ancora non crede allo Shrike?
Melio Arundez mi lanciò un'occhiata di fuoco. — Rachel ha contratto il morbo di Merlino — rispose. — Una malattia d'invecchiamento anti-entropico, non il morso d'un mostro mitico.
— Il morso del tempo non è mai stato mitico — dissi, sorprendendo me stesso con questo frammento da quattro soldi di filosofia fatta in casa. — La domanda è: lo Shrike, o quale che sia il potere che abita le Tombe, riporterà Rachel al flusso di tempo "locale"?
Arundez annuì e rivolse lo sguardo ai tetti. Il sole si era spostato fra le nuvole; il mattino era smorto, le tegole rosse parevano slavate di ogni colore. La pioggia cominciava a cadere di nuovo.
— E c'è un'altra domanda — continuai, sorprendendomi di nuovo. — Lei è ancora innamorato di Rachel?
Arundez girò lentamente la testa per fissarmi con occhi pieni di rabbia. Controllò a fatica l'impulso a rispondere per le rime, forse non solo a parole. Poi si calmò, infilò la mano nella tasca della giacca e mi mostrò un'olografia, l'istantanea d'una donna attraente ma non più giovane e di due bambini sui dieci anni. — Mia moglie e i miei figli — disse. — Mi aspettano, su Vettore Rinascimento. — Puntò contro di me il dito tozzo. — Se… se Rachel fosse curata oggi, avrei ottantadue anni standard, prima che raggiungesse di nuovo l'età che aveva quando la conobbi. — Ripose in tasca l'olografia. — E… sì, sono ancora innamorato di lei.
Dopo un attimo, una voce ruppe il silenzio. — Pronto? — Huni e Theo Lane erano sulla soglia. — La navetta decolla fra dieci minuti — disse Hunt.
Mi alzai e strinsi la mano a Melio Arundez. — Ci proverò — dissi.
Il governatore generale Lane ordinò a uno dei suoi skimmer di scorta di riportarci allo spazioporto, mentre lui tornava al consolato. Lo skimmer militare non era più comodo dell'altro, ma sicuramente più veloce. A bordo della navetta, quando fummo legati nei sedili a rete, Hunt disse: — Cosa aveva da discutere, con quel cronofisico?
— Mi limitavo a rinnovare vecchi legami con un estraneo — risposi.
Hunt si accigliò. — Cosa gli ha promesso di tentare?
Sentii la navetta rombare e dare uno strattone, quando la griglia catapulta ci lanciò verso il cielo. — Gli ho detto che cercherò di combinare per lui una visita a un'amica ammalata — risposi.
Hunt rimase accigliato, ma io estrassi un blocco per schizzi e disegnai immagini del Cicero, finché non attraccammo alla Balzonave, quindici minuti più tardi.
Varcare il teleporter e ritrovarsi nel nesso per funzionari della Casa del Governo fu sconvolgente. Un altro passo ci portò nella galleria del Senato, dove Meina Gladstone parlava ancora all'assemblea quasi al completo. Olocamere e microfoni portavano il suo discorso alla Totalità e a cento miliardi di cittadini in attesa.
Diedi un'occhiata al cronometro. Erano le 10,38. Eravamo stati via solo novanta minuti.
12
L'edificio che ospitava il Senato dell'Egemonia dell'Uomo seguiva più lo schema del Senato degli Stati Uniti di otto secoli prima che non le maestose costruzioni della Repubblica Nordamericana o del Primo Consiglio Mondiale. La sala principale era ampia, circondata di balconate, sufficiente a contenere i trecento e passa senatori dei mondi della Rete e la settantina di rappresentanti senza diritto di voto delle colonie del Protettorato. I tappeti erano di un ricco color vinaccia e si irradiavano dalla piattaforma centrale dove il Presidente pro tempore, lo Speaker della Totalità e, oggi, il Primo Funzionario Esecutivo dell'Egemonia, avevano il proprio seggio. Le scrivanie dei senatori erano di legno muir, donato dai Templari di Bosco Divino e ritenuto sacro, e il luccichio e il profumo del legno brunito riempivano la sala anche quando era affollata come in quel momento.
Leigh Hunt e io entrammo proprio mentre Gladstone terminava il discorso. Premetti i tasti del comlog per una rapida lettura. Come per la maggior parte dei discorsi di Meina Gladstone, anche quello era breve, relativamente semplice, senza condiscendenza né parole altisonanti, eppure dotato di una fraseologia originale e di una ricchezza d'immagini che facevano grande effetto. Gladstone aveva passato in rassegna gli incidenti e i conflitti che avevano portato all'attuale stato di guerra con gli Ouster, aveva proclamato il desiderio di pace tuttora al primo posto nella politica dell'Egemonia e auspicato l'unità all'interno della Rete e del Protettorato, almeno fino al superamento della crisi in corso. Ascoltai la conclusione.
« …e così accade, concittadini, che dopo più di un secolo di pace ci troviamo di nuovo impegnati in una lotta per mantenere quei diritti ai quali la nostra società è consacrata fin da prima della morte della nostra Madre Terra. Dopo più d'un secolo di pace, adesso dobbiamo impugnare… anche se di malavoglia, anche se con ribrezzo… lo scudo e la spada, che hanno sempre preservato i nostri diritti e garantito il bene comune, in modo che la pace possa di nuovo prevalere.
«Non dobbiamo lasciarci ingannare… e non ci lasceremo ingannare… dall'eco di trombe né dall'impeto di gioia che la chiamata alle armi inevitabilmente produce. Coloro che ignorano le lezioni della storia a proposito della follia finale della guerra, sono costretti a fare più che riviverla… potrebbero essere costretti a morire. Grandi sacrifici potrebbero attenderci tutti. Grandi dispiaceri potrebbero essere in serbo per alcuni di noi. Ma qualsiasi cosa ci portino i successi o le sconfitte, vi dico che dobbiamo ricordare due cose sopra ogni altra: primo, che combattiamo per la pace e sappiamo che la guerra non sarà mai una condizione, ma un flagello temporaneo che sopporteremo come un bambino sopporta la febbre, sapendo che la salute seguirà la lunga notte di sofferenza e che la pace è salute. Secondo, che non ci arrenderemo mai… non ci arrenderemo mai, né vacilleremo, né ci piegheremo a voci inferiori né a impulsi più confortevoli… non vacilleremo mai, finché la vittoria non sarà nostra, l'aggressione non sarà respinta, la pace non sarà riconquistata. Vi ringrazio.»
Leigh Hunt si sporse a guardare attentamente la maggior parte dei senatori che si alzava per dedicare a Gladstone un'ovazione che echeggiò sotto l'alto soffitto e colpì come un'ondata noi nella galleria. La maggior parte dei senatori, non tutti. Vidi Hunt contare quelli che erano rimasti seduti, alcuni a braccia conserte, altri visibilmente accigliati. La guerra aveva meno di due giorni e già l'opposizione cresceva… prima da parte dei mondi coloniali che temevano per la propria sicurezza poiché la FORCE si sarebbe spostata nell'ambito di Hyperion, poi dagli avversari politici di Gladstone, che erano un buon numero, dal momento che nessuno resta al potere tanto a lungo quanto lei senza crearsi squadre di nemici, e infine da parte di componenti della stessa coalizione di governo, che consideravano la guerra una sciocca distruzione di prosperità senza precedenti.
Gladstone lasciò la piattaforma, strinse la mano all'anziano Presidente e al giovane Speaker, percorse il passaggio centrale, salutò diversi senatori e scambiò battute, mostrando il suo ben noto sorriso. Olocamere della Totalità la seguirono: riuscivo a percepire la pressione della rete di dibattito che s'ingigantiva a mano a mano che nei livelli interattivi della megasfera miliardi di cittadini esprimevano la propria opinione.
— Ora devo parlare al PFE — disse Hunt. — Sa di essere stato invitato alla cena ufficiale, stasera, al Treetops?
— Sì — risposi. Hunt scosse leggermente la testa, come se proprio non capisse perché il PFE voleva la mia presenza. — Finirà tardi e sarà seguita da una riunione con la FORCE:comando. Il PFE vuole che lei partecipi a tutt'e due.