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Intorno al tavolo si levò un mormorio. Il dibattito crebbe, divenne quasi violento.

— PFE! — gridò il generale Morpurgo.

Nel silenzio improvviso, Gladstone alzò lo sguardo verso i display olografici nel buio in alto. Lo Sciame di Mare Infinitum cadeva verso il mondo oceanico come un torrente di sangue indirizzato su di una piccola sfera azzurra. Solo tre faville arancione dell'Unità Operativa 181.2 rimanevano; proprio mentre il Consiglio muto guardava, due si spensero. Poi si estinse anche l'ultima.

Gladstone mormorò nel comlog: — Trasmissioni, c'è stato un ultimo messaggio da parte dell'ammiraglio Lee?

— Nessuno al centro comando, signora — fu la risposta. — Solo telemetria astrotel standard, durante la battaglia. A quanto pare, non hanno raggiunto il centro dello Sciame.

Gladstone e Lee avevano nutrito qualche speranza di catturare degli Ouster, di interrogarli, di stabilire al di là di ogni dubbio l'identità del nemico. Ora quel giovanotto dotato di tanta energia e di tanta abilità era morto… morto per eseguire gli ordini di Meina Gladstone… e settantaquattro navi erano andate sprecate.

— Teleporter di Mare Infinitum distrutto da esplosivi al plasma programmati — annunciò l'ammiraglio Singh. — Elementi di avanguardia dello Sciame penetrano ora nel perimetro cislunare di difesa.

Nessuno aprì bocca. Le olografie mostrarono l'ondata di luci rosso sangue avvolgere il sistema di Mare Infinitum, mentre si spegnevano le ultime faville arancione intorno a quel mondo dorato.

Alcune centinaia di navi Ouster rimasero in orbita, presumìbilmente riducendo in detriti bruciati le aggraziate città galleggianti di Mare Infinitum e le fattorie marine, ma la maggior parte dell'ondata color sangue continuò a rotolare al di là della regione di spazio proiettata in alto.

— Il sistema di Asquith, fra tre ore e quarantuno minuti standard — intonò un tecnico accanto alla consolle di display.

Il senatore Kolchev si alzò. — Mettiamo ai voti la dimostrazione Hyperion — disse, rivolgendosi ostentatamente a Gladstone, ma parlando a tutti i presenti.

Meina Gladstone si tamburellò il labbro. — No — disse infine. — Nessuna votazione. Useremo l'ordigno. Ammiraglio, prepari per la traslazione nel sistema di Hyperion la nave torcia armata di neurobomba e poi trasmetta avvertimenti sia al pianeta sia agli Ouster. Conceda tre ore di tempo. Ministro Imoto, mandi a Hyperion segnale astrotel in codice per dire che devono… ripeto, devono… cercare immediatamente rifugio nei labirinti. Dica che sarà provata una nuova arma.

Morpurgo si asciugò il viso sudato. — Signora, non possiamo correre il rischio che l'ordigno cada in mani nemiche.

Gladstone lanciò un'occhiata al consulente Nansen e cercò di non mostrare quel che provava. — Consulente, l'ordigno può essere modificato in modo che esploda automaticamente, se la nostra nave fosse catturata o distrutta?

— Sì, signora.

— Provveda. Illustri agli esperti della FORCE i necessari accorgimenti di sicurezza. — Si rivolse a Sedeptra. — Preparami una trasmissione all'intera Rete, con inizio previsto dieci minuti prima\iella detonazione dell'ordigno. Devo parlarne alla nostra gente.

— Le sembra saggio… — iniziò la senatrice Feldstein.

— È necessario — disse Gladstone. Si alzò, subito imitata dai trentotto presenti. — Riposerò per qualche minuto, mentre voi lavorate. Voglio che l'ordigno sia pronto e si trovi nel sistema; e che Hyperion sia avvertito immediatamente. Fra trenta minuti, al mio risveglio, voglio trovare pronti piani di emergenza e una scaletta di priorità per una soluzione negoziata.

Guardò il gruppo, ben sapendo che, in un modo o nell'altro, nel giro delle successive venti ore gran parte dei presenti sarebbe stata senza potere e senza carica. In tutti i casi, quello era il suo ultimo giorno da Primo Funzionario Esecutivo.

Sorrise. — Consiglio sospeso — disse. E si teleportò nelle sue stanze per mezz'ora di sonno.

43

Prima d'ora Leigh Hunt non aveva mai visto nessuno morire. L'ultimo giorno e l'ultima notte che passò con Keats (Hunt pensava a lui ancora come Joseph Severn, ma era sicuro che il moribondo ora si considerava John Keats) furono i più difficili della sua vita. Le emorragie si manifestarono di frequente, nell'ultimo giorno di Keats; e fra i conati di vomito si sentiva il catarro gorgogliare nella gola e nel petto dell'uomo che lottava per vivere.

Hunt sedette accanto al letto, nella stanzetta affacciata su Piazza di Spagna, e ascoltò Keats borbottare, mentre l'alba si mutava in mattino e il mattino svaniva nel precoce crepuscolo. Keats, febbricitante, alternava momenti di incoscienza a momenti di lucidità, ma insistette che Hunt ascoltasse e mettesse per iscritto ogni sua parola… nell'altra stanza avevano trovato inchiostro, penna e carta protocollo; e Hunt acconsentì, scribacchiò con furia, mentre il cìbrido moribondo vaneggiava di metasfera e di divinità perdute, delle responsabilità dei poeti e della morte di dèi, della miltoniana guerra civile all'interno del Nucleo.

A quel punto Hunt alzò bruscamente la testa e strinse la mano febbricitante di Keats. — Dov'è, il Nucleo, Sev… Keats? Dove si trova?

Il moribondo, visibilmente sudato, girò il viso. — Non mi aliti in faccia… sembra ghiaccio!

— Il Nucleo — ripeté Hunt, tirandosi indietro e sentendosi prossimo alle lacrime, per la pietà e l'esasperazione. — Dove si trova, il Nucleo?

Keats sorrise, agitò la testa per il dolore. Lo sforzo di respirare parve rumore di vento in un mantice rotto. — Come ragni nella tela — mormorò — ragni nella tela. Tessono… lasciano che noi tessiamo per loro… poi ci legano come salami e ci prosciugano. Come mosche catturate da ragni nella tela.

Hunt smise di scrivere per ascoltare meglio quei vaneggiamenti che parevano privi di senso. Poi capì. — Mio Dio — mormorò. — Sono nella rete di teleporter.

Keats cercò di tirarsi a sedere, afferrò con forza terribile il braccio di Hunt. — Lo riferisca al suo capo, Hunt. Dica a Gladstone di strappare la Rete. Ragni nella tela. Dio uomo e dio macchina… devono trovare l'unione. Non io! — Cadde di nuovo sui cuscini e si mise a piangere in silenzio. — Non io!

Keats dormì un poco, nel pomeriggio, anche se era un assopimento più vicino alla morte che al sonno. Il minimo rumore svegliava il poeta moribondo e lo faceva lottare per respirare. Al tramonto Keats era troppo debole per espettorare e Hunt lo aiutò a chinare la testa sopra la bacinella in modo che la forza stessa di gravità gli ripulisse la bocca e la gola di muco sanguinolento.

Diverse volte, quando Keats cadeva in momenti di sonno agitato, Hunt andò alla finestra, e una volta al portone in fondo alle scale, per guardare nella piazza. Una sagoma alta e spigolosa era ferma nelle ombre più fitte dalla parte opposta della piazza, accanto alla base della scalinata.

Quella sera, Hunt stesso si appisolò un poco, seduto rigidamente sulla poltrona dura accanto al letto di Keats. Si svegliò da un sogno in cui gli sembrava di cadere e allungò la mano per riprendere l'equilibrio: Keats, sveglio, lo fissava.

— Ha mai visto una persona morire? — domandò Keats, fra deboli ansiti per respirare.

— No. — Hunt pensò che c'era un'espressione bizzarra, nello sguardo fisso del giovanotto, come se Keats guardasse lui ma vedesse un altro.

— Allora la compatisco — disse Keats. — In quale pericoloso pasticcio si è messo, per me. Ora si faccia forza: non durerà molto.