Hunt fu colpito non solo dal coraggio e dalla gentilezza di queste parole, ma anche dall'improvviso cambiamento di pronuncia, dal piatto inglese standard della Rete a uno più antico e interessante.
— Sciocchezze — disse con calore, sforzandosi di mostrare un entusiasmo e un'energia che non sentiva. — Prima dell'alba saremo fuori da questa situazione. Appena fa buio uscirò di nascosto e andrò alla ricerca di un teleporter.
Keats scosse la testa. — Lo Shrike la prenderà. Non permetterà a nessuno di aiutarmi. Il suo ruolo è quello di badare che io sfugga a me stesso tramite me stesso. — Chiuse gli occhi, mentre il respiro diventava più sibilante.
— Non capisco — disse Leigh Hunt, prendendogli la mano. Immaginò che si trattasse di altri vaneggiamenti provocati dalla febbre, ma poiché era una delle poche volte, negli ultimi due giorni, in cui Keats era pienamente cosciente, Hunt pensò bene che valesse la pena continuare nello sforzo di parlargli. — Cosa significa sfuggire a lei stesso tramite lei stesso?
Keats mosse le palpebre e aprì gli occhi. Erano castani e troppo lucidi. — Ummon e gli altri cercano di farmi accettare la divinità, Hunt. Esca per catturare la balena bianca, miele per afferrare la mosca finale. L'Empatia in fuga troverà in me la propria casa… in me, signor John Keats, un metro e cinquanta… e così la riconciliazione inizia, giusto?
— Quale riconciliazione? — Hunt si sporse più vicino, cercando di non alitargli in viso. Keats sembrava essersi raggrinzito fra le lenzuola e il groviglio di coperte, ma il calore che emanava da lui pareva riempire la stanza. Il viso era un livido ovale nella luce morente. Hunt si rendeva vagamente conto di una striscia dorata di sole riflesso che si muoveva sulla parete appena sotto il punto di incontro con il soffitto, ma gli occhi di Keats non lasciarono mai quell'ultima macchia di giorno.
— La riconciliazione fra uomo e macchina, fra Creatore e creatura — disse Keats e cominciò a tossire, fermandosi solo dopo avere lasciato gocciolare catarro arrossato nel catino che Hunt reggeva per lui. Tornò a distendersi, ansimò un momento e aggiunse: — Riconciliazione fra l'umanità e le razze che essa ha cercato di sterminare, fra il Nucleo e l'umanità che esso ha cercato di cancellare, fra il Dio penosamente evolutosi dal Vuoto Legante e i suoi antenati che cercarono di annullarlo.
Hunt scosse la testa e smise di scrivere. — Non capisco. Lei può diventare questo… questo messia… semplicemente lasciando il letto di morte?
Il livido ovale del viso di Keats si agitò sul guanciale, in un movimento che forse era un improvviso surrogato di risata. — Tutti potevamo diventarlo, Hunt. La follia è il massimo orgoglio dell'umanità. Accettiamo la nostra sofferenza. Facciamo spazio ai nostri figli. Questo ci è valso il diritto di diventare il Dio che abbiamo sognato.
Hunt serrò i pugni, esasperato. — Se lei può farlo, se può divenire questo potere, lo faccia. Ci tolga da qui!
Keats chiuse di nuovo gli occhi. — Non posso. Non sono Colui Che Viene, ma Colui Che Viene Prima. Non il battezzato, ma il battista. Merde, Hunt, io sono ateo! Perfino Severn non riuscì a convincermi, mentre annegavo a morte! — Lo afferrò per la camicia, con una ferocia che spaventò Hunt. — Scriva questo!
E Hunt cercò l'antiquata penna e la carta ruvida, scribacchiò in fretta per non perdere le parole che ora Keats mormorava:
Keats visse per altre tre ore dolorose, nuotatore che di tanto in tanto emergeva dal mare di sofferenza a trarre un respiro o a mormorare pressanti sciocchezze. Una volta, molto dopo il buio, tirò Hunt per la manica e gli mormorò abbastanza lucidamente: — Quando sarò morto, lo Shrike non le farà alcun male. Aspetta me. Forse non c'è un modo per tornare a casa; ma non le farà niente, mentre lei cerca. — E di nuovo, proprio mentre Hunt si chinava ad ascoltare se il respiro gorgogliava ancora nei polmoni del poeta, Keats si mise a parlare e continuò fra gli spasmi, finché non ebbe dato a Hunt precise istruzioni per la propria sepoltura nel cimitero protestante di Roma, nei pressi della piramide di Caio Cestio.
— Sciocchezze, sciocchezze — continuò a borbottare Hunt, come se recitasse un mantra, serrando la mano ardente del giovane.
— Fiori — mormorò Keats poco dopo, appena Hunt accese la lampada sul cassettone. Teneva gli occhi spalancati e fissava il soffitto, con un'espressione di pura meraviglia infantile. Hunt lanciò un'occhiata in alto e vide le sbiadite rose gialle dipinte in riquadri azzurri sul soffitto. — Fiori… sopra di me — mormorò Keats, fra gli sforzi di respirare.
Hunt, fermo alla finestra, fissava le ombre al di là della Scalinata Spagnola, quando il respiro rauco e penoso vacillò, si bloccò, e Keats ansimò: — Severn… alzami! Muoio.
Hunt si sedette sul letto, sollevò il poeta. Il calore fluì dal piccolo corpo che pareva pesare niente, come se la reale sostanza dell'uomo fosse stata bruciata via. — Non spaventarti. Fatti forza. E ringrazia Dio che sia giunta! — ansimò Keats. E il terribile respiro rauco cessò. Hunt aiutò Keats a distendersi in posizione più comoda, mentre il respiro tornava a un ritmo normale.
Cambiò l'acqua nel catino, inumidì uno straccio pulito e tornò al letto, solo per trovare Keats morto.
Più tardi, appena dopo l'alba, Hunt prese in braccio il corpo smagrito, avvolto in lenzuola pulite tolte dall'altro letto, e uscì nella città.
La tempesta si era calmata, quando Brawne Lamia giunse al capo opposto della valle. Nel passare davanti alle Grotte aveva visto lo stesso bagliore irreale emesso dalle altre Tombe, ma aveva udito anche un rumore terribile, come un lamento urlato da migliaia di anime, echeggiare e gemere dalla terra. Aveva allungato il passo.
Il cielo era sereno, quando si fermò di fronte al Palazzo dello Shrike. L'edificio aveva un nome ben scelto: la semicupola si alzava e sporgeva come il carapace della creatura, gli elementi di sostegno s'incurvavano in basso come lame che infilzassero il fondovalle, altri contrafforti balzavano in alto e all'esterno come spine dello Shrike. Le pareti erano divenute trasparenti con l'aumentare del bagliore interno e ora l'edificio scintillava come una gigantesca lanterna di zucca ridotta allo spessore di un foglio di carta; la parte superiore ardeva del rosso dello sguardo dello Shrike.
Brawne inspirò a fondo e si toccò l'addome. Era incinta — lo sapeva già prima di lasciare Lusus — e non doveva qualcosa di più al figlio non ancora nato che all'osceno poeta impalato sull'albero dello Shrike? Si disse che la risposta era sì, ma non gliene fregava niente. Lasciò uscire il fiato e si avvicinò al Palazzo dello Shrike.
Dall'esterno, il Palazzo non era profondo più di venti metri. Prima, quando vi erano entrati, Brawne e gli altri pellegrini avevano visto l'interno come un unico locale aperto, vuoto a parte i supporti a forma di lama che incrociavano lo spazio sotto la cupola lucente. Ora, ferma sull'entrata, Brawne vide un locale più ampio della valle stessa. Gradinate di pietra bianca si alzavano fila su fila e si estendevano fino a svanire in lontananza. Su ciascun gradino di pietra giacevano corpi umani, ognuno abbigliato in maniera differente, ognuno impastoiato dallo stesso tipo di cavo con presa shunt, semiorganico e semiparassita, con il quale secondo i suoi amici anche lei era stata legata. Solo, questi cordoni ombelicali metallici ma trasparenti pulsavano di rosso e si espandevano e si contraevano con regolarità, come se il sangue venisse riciclato attraverso il cranio della figura dormiente.