Brawne arretrò barcollando, colpita tanto dalla trazione delle maree anti-entropiche quanto dallo spettacolo; ma quando fu a dieci metri dal Palazzo, vide che l'esterno era dello stesso formato di sempre. Non pretese di capire come chilometri di interno potessero adattarsi a un guscio di dimensioni così modeste. Le Tombe del Tempo si aprivano. Quella Tomba poteva coesistere in tempi diversi, per quanto lei ne sapeva. Ma Brawne sapeva che, nel risvegliarsi dai viaggi sotto shunt, aveva visto l'albero di spine dello Shrike legato con tubi e liane di energia invisibili all'occhio ma chiaramente connessi al Palazzo dello Shrike.
Tornò di nuovo all'ingresso.
Lo Shrike attendeva all'interno. Il carapace, di solito splendente, adesso pareva nero, stagliato contro la luce e il bagliore marmoreo tutt'intorno.
Brawne si sentì percorsa da una scarica di adrenalina, provò l'impulso di girarsi e correre via… e varcò la soglia.
L'ingresso quasi svanì alle sue spalle, rimase visibile solo come fioca increspatura nel bagliore uniforme emanato dalle pareti. Lo Shrike non si mosse. Dall'ombra delle orbite, gli occhi rossi brillarono.
Brawne avanzò di un passo, senza che gli stivali facessero rumore sul pavimento di pietra. Lo Shrike era dieci metri alla sua destra, dove i catafalchi di pietra iniziavano e salivano come osceni scaffali di esposizione verso il soffitto perso nel bagliore. Brawne non s'illuse di poter tornare alla porta prima che la creatura le venisse addosso.
Lo Shrike non si mosse. L'aria puzzava di ozono e di un lezzo dolciastro e nauseante. Brawne si mosse lungo la parete che le copriva le spalle ed esaminò le file di corpi, cercando un viso conosciuto. A ogni passo verso sinistra, si allontanava dall'uscita e rendeva più facile allo Shrike tagliarle la ritirata. La creatura rimase ferma come una statua nera in un oceano di luce.
Le gradinate si estendevano per chilometri. Gradini di pietra, ciascuno alto quasi un metro, interrompevano le linee orizzontali di corpi scuri. A diversi minuti di cammino dall'entrata, Brawne salì il terzo inferiore di una di queste scale, toccò il corpo più vicino della seconda gradinata e provò sollievo nel sentire la carne tiepida, il sollevarsi e l'abbassarsi del petto dell'uomo. Non era Martin Sileno.
Brawne continuò a procedere, quasi aspettandosi di trovare Paul Duré o Sol Weintraub o perfino se stessa distesa fra quei morti viventi. Invece trovò un viso che l'ultima volta aveva visto scolpito nella parete di una montagna. Re Billy il Triste giaceva immobile sulla pietra bianca, cinque gradinate più in alto, con le vesti regali bruciacchiate e macchiate. Il viso triste, come quello di ogni altro, era stravolto da un'atroce sofferenza interiore. Martin Sileno giaceva tre corpi più in là, sopra una scalinata più in basso.
Brawne si accovacciò accanto al poeta, lanciando un'occhiata al puntino nero dello Shrike, sempre immobile al termine delle file di corpi. Come gli altri, Sileno sembrava vivo, in muta sofferenza, ed era collegato a una presa shunt connessa a un cordone ombelicale pulsante che, a sua volta, spariva nella bianca parete dietro il ripiano, come saldato alla roccia.
Brawne ansimò di paura, mentre passava la mano sul cranio del poeta, sentendo la fusione di plastica e osso; poi tastò lo stesso cordone ombelicale, senza trovare congiunzione né apertura nel punto dove si saldava alla pietra. Un fluido le pulsò sotto le dita.
— Merda — mormorò Brawne; presa da panico improvviso, si guardò alle spalle, sicura che lo Shrike fosse strisciato di nascosto a distanza per colpirla. La sagoma scura era ancora ferma all'estremità della lunga stanza.
Brawne aveva le tasche vuote. Non aveva armi né utensili. Capì che doveva tornare alla Sfinge, trovare gli zaini, prendere un arnese da taglio e poi fare ritorno, chiamando a raccolta il coraggio necessario per entrare di nuovo.
Capì che non avrebbe mai più varcato quella porta.
Si mise in ginocchio, inspirò a fondo, sollevò il braccio e vibrò un gran colpo. Il taglio della mano si abbatté contro un materiale che pareva plastica trasparente e che era più duro dell'acciaio. Brawne sentì dal polso alla spalla il dolore di quel singolo colpo.
Guardò a destra. Lo Shrike si muoveva verso di lei, a passi lenti, come un vecchio che facesse con calma la passeggiata.
Brawne gridò, si mise in ginocchio e colpì di nuovo, a palmo rigido, pollice serrato ad angoli retti. Il rumore dell'impatto echeggiò nella sala.
Brawne Lamia era cresciuta su Lusus, 1,3 della gravità standard, ed era atletica anche per la sua razza. Da quando aveva nove anni, aveva sognato di diventare investigatrice e si era impegnata per riuscire; e una parte di questa preparazione, riconosciuta ossessiva e totalmente illogica, consisteva nell'addestramento alle arti marziali. Ora Brawne grugnì, alzò il braccio e colpì di nuovo, imponendosi che il taglio della mano fosse la lama di una scure, vedendo nella mente il colpo che tranciava, il vittorioso colpo tranciante.
Il coriaceo cordone ombelicale si ammaccò impercettibilmente, pulsò come una cosa viva, parve farsi piccolo piccolo, quando lei vibrò ancora un colpo.
In basso e dietro di lei risuonò il rumore di passi. Brawne si lasciò quasi sfuggire una risatina sciocca. Lo Shrike poteva muoversi senza camminare, passare da un punto all'altro senza fatica. Certo si divertiva ad atterrire la preda. Brawne non era spaventata. Era troppo impegnata.
Alzò la mano, la calò di nuovo. Era come colpire la pietra. Brawne colpì ancora di taglio il cordone ombelicale: alcuni ossicini della mano cedettero. Il dolore fu come un rumore lontano, come il fruscio in basso e dietro di lei.
"Hai pensato" si disse "che rischi di ucciderlo, se riesci a spezzare questa roba?"
Colpì di nuovo. I passi si fermarono alla base della scala.
Brawne ansimava per lo sforzo. Dalla fronte e dalle guance il suo sudore sgocciolava sul petto del poeta dormiente.
"E non mi sei nemmeno simpatico" pensò ancora, rivolgendosi a Martin Sileno. Colpì di nuovo. Era come amputare la zampa di un elefante di metallo.
Lo Shrike cominciò a salire la scala.
Brawne si mise quasi in piedi e aggiunse tutta la forza del proprio peso in un colpo che quasi le slogò la spalla e le spezzò il polso e le fratturò altre piccole ossa nella mano.
E recise il cordone ombelicale.
Liquido rosso troppo poco viscoso per essere sangue schizzò le gambe di Brawne e la pietra bianca. Il cordone reciso ancora sporgente dalla parete si contrasse e frustò l'aria come un tentacolo, prima di giacere mollemente e poi ritrarsi, serpente sanguinante che scivolava in un buco che smise di esistere non appena il cordone ombelicale fu fuori vista. Il mozzicone ancora attaccato allo shunt neurale di Sileno appassì in cinque secondi, morì e si contrasse come una medusa fuor di acqua. Un liquido rosso spruzzò il viso e le spalle del poeta e si mutò in blu sotto gli occhi di Brawne.
Le palpebre di Martin Sileno si contrassero; gli occhi si spalancarono come quelli di un gufo.
— Ehi, Brawne — disse il poeta — quella merda di Shrike è proprio dietro di te!
Gladstone si teleportò nel suo alloggio privato ed entrò subito nello stanzino astrotel. Due messaggi l'attendevano.
Il primo proveniva dallo spazio di Hyperion. Gladstone batté le palpebre, quando la voce calma dell'ex governatore generale di Hyperion, il giovane Lane, riferì un breve riassunto dell'incontro con il Tribunale Ouster. Si appoggiò alla spalliera del sedile di pelle e si portò alle guance i pugni, mentre Lane ripeteva la smentita degli Ouster. Non erano loro, gli invasori. Lane completò il messaggio con una breve descrizione dello Sciame ed espresse il parere che gli Ouster dicessero la verità, ammise che la sorte del Console era ancora ignota e chiese disposizioni.