Lo Shrike rimase dieci metri più indietro, fra i cipressi dai rami fruscianti, ma Hunt vide il bagliore degli occhi rossi e lo sguardo fisso sulla tomba.
Girò intorno al cavallo, che ora masticava beatamente, e si accostò alla tomba. Non c'era bara. La fossa era profonda circa un metro e venti; la montagnola di terra lì accanto odorava di humus rivoltato e di terriccio fresco. Conficcata nella montagnola c'era una pala dal manico lungo, che pareva appena abbandonata da chi aveva eseguito lo scavo. A un capo della fossa, per dritto, c'era una lastra di pietra, priva di iscrizione… una lapide in bianco. Hunt notò lo scintillio metallico sopra la lastra e corse a vedere: era il primo manufatto moderno che avesse trovato, da quando l'avevano rapito e portato sulla Vecchia Terra. Si trattava di una piccola penna laser, del tipo usato dagli operai edili o dagli artisti per tracciare disegni sulle leghe più dure.
Hunt si girò, reggendo la penna; si sentì armato, ma ritenne assurdo il pensiero che quel raggio sottile fermasse lo Shrike. Mise la penna nel taschino della camicia e si dedicò alla sepoltura di John Keats.
Alcuni minuti dopo, pala in mano, si fermò accanto alla montagnola di terriccio e guardò, in fondo alla fossa, il piccolo fagotto avvolto nel sudario; cercò di trovare qualche parola appropriata. Aveva partecipato a numerosi funerali di stato, aveva perfino scritto per Gladstone l'elogio funebre di alcuni personaggi, e non aveva mai trovato difficoltà nel trovare le parole. Ma in quel momento non gli veniva nessuna frase. Gli unici spettatori erano lo Shrike sempre fermo in silenzio fra le ombre dei cipressi e le pecore con i campanacci tintinnanti, che si muovevano nervosamente lontano dal mostro, dirette alla tomba come un gruppo di dolenti tardivi.
Hunt pensò che forse in quella situazione era appropriata una delle poesie originali di John Keats, ma lui era un funzionario politico, non un appassionato di poesia antica. Ricordò, troppo tardi, di avere messo per iscritto frammenti di versi dettati dall'amico il giorno prima: i fogli erano rimasti sul cassettone, nella casa in Piazza di Spagna. Riguardavano qualcosa sul diventare divino o dio, l'improvvisa conoscenza di troppe cose… o sciocchezze del genere. Hunt aveva un'ottima memoria, ma non riuscì a ricordare il primo verso di quell'arcaico guazzabuglio.
Alla fine, arrivò al compromesso di un momento di silenzio, a testa china e a occhi chiusi, a parte una sbirciata di tanto in tanto allo Shrike che si manteneva sempre a distanza; poi prese a gettare nella fossa palate di terriccio. Impiegò più tempo di quanto non avesse creduto. Quando terminò di battere per bene il terriccio, la superficie era leggermente concava, come se il corpo fosse stato troppo insignificante per formare un tumulo vero e proprio. Le pecore sfiorarono le gambe di Hunt per brucare l'erba, le margherite e le violette che crescevano intorno alla tomba.
Hunt non ricordava le poesie di Keats, ma non ebbe difficoltà a ricordare l'iscrizione che lui gli aveva chiesto di apporre sulla lapide. Accese la penna, per provarla bruciò erba e terriccio per un tratto di tre metri e fu costretto a spegnere col piede il piccolo incendio che aveva provocato. L'iscrizione l'aveva turbato dal primo momento in cui l'aveva udita… solitudine e amarezza percepibili sotto i sibili e gli ansiti dello sforzo di Keats per parlare. Ma Hunt pensò che non toccasse a lui discutere il desiderio del poeta. Doveva solo tracciare l'iscrizione, lasciare quel posto ed evitare lo Shrike cercando il modo di tornare a casa.
La penna scalfì con facilità la pietra: Hunt dovette fare delle prove sul retro della lapide, prima di controllare bene l'arnese e di trovare la profondità giusta del tratto. Eppure, quando Hunt terminò, una ventina di minuti più tardi, il risultato aveva l'aria irregolare di un lavoro fatto a mano.
Per prima cosa c'era il rozzo disegno (Keats aveva mostrato a Hunt diversi schizzi tracciati con mano incerta su carta protocollo) raffigurante una lira greca con quattro delle otto corde rotte. Hunt non fu soddisfatto del lavoro — nel disegno era ancora meno abile di quanto fosse appassionato di poesia — ma chiunque sapesse che cos'era in realtà una lira greca probabilmente avrebbe riconosciuto lo schizzo. Poi venne la legenda in sé, scritta esattamente come Keats l'aveva dettata:
Nient'altro: né data di nascita e di morte, nemmeno il nome. Hunt si ritrasse, esaminò l'opera, scosse la testa, spense la penna ma la tenne in mano e si avviò a tornare in città, facendo un ampio giro intorno alla creatura fra i cipressi.
Al sottopasso delle mura aureliane si fermò a guardarsi indietro. Il cavallo, sempre attaccato al carro, si era mosso lungo il declivio a mangiare erba più dolce lungo la riva di un ruscello. Le pecore giravano sul terreno, brucavano fiori e lasciavano impronte sul terriccio umido della tomba. Lo Shrike era sempre al solito posto, appena visibile sotto l'ombra dei rami di cipresso. Hunt fu quasi sicuro che la creatura fosse ancora rivolta verso la tomba.
Nel tardo pomeriggio Hunt trovò il teleporter: un rettangolo opaco, blu scuro, ronzante, al centro esatto delle rovine del Colosseo. Non c'era diskey, né piastra per punzonare la destinazione. Il portale era lì a mezz'aria come un uscio opaco ma spalancato.
Ma non spalancato per Hunt.
Hunt tentò cinquanta volte di varcarlo, ma la superficie era solida e resistente come pietra. Provò a toccarla con la punta delle dita, avanzò fiduciosamente di un passo e fu respinto, si lanciò contro il rettangolo azzurro, lo prese a sassate col solo risultato di veder rimbalzare le pietre, tentò da tutt'e due i lati e perfino di spigolo, ma finì per lanciarsi e lanciarsi contro l'inutile apparecchiatura fino ad avere spalle e braccia piene di lividi.
Era un teleporter. Hunt ne era certo. Ma non lo lasciava passare.
Hunt frugò le altre parti del Colosseo, perfino i corridoi sotterranei da cui sgocciolavano umidità e guano di pipistrelli, ma non trovò altri portali. Esaminò le vie vicine e tutti gli edifici. Niente. Cercò per tutto il pomeriggio, nella basilica e nelle cattedrali, nelle case e nelle baracche, in edifici signorili e in vicoletti. Tornò perfino in Piazza di Spagna, consumò al pianterreno un rapido pasto, mise in tasca i fogli e ogni altra cosa interessante trovata nelle stanze del piano superiore, poi lasciò quella casa una volta per tutte e riprese la ricerca.
Quello nel Colosseo fu l'unico teleporter che riuscì a trovare. Al tramonto l'aveva artigliato fino a farsi sanguinare le dita. Sembrava giusto, emetteva il ronzio giusto, dava al tatto la sensazione giusta, ma non lo lasciava passare.
Una luna, non la Luna della Vecchia Terra, a giudicare dalle tempeste di polvere e dalle nubi visibili sulla superficie, si era alzata e adesso era sospesa sopra la curva scura delle pareti del Colosseo. Hunt sedeva sui sassi al centro e fissava con odio il bagliore azzurrino del portale. Da un punto alla sue spalle provenne il rumore di colombi che svolazzavano spaventati e di un sassolino sulla pietra.
Hunt si alzò penosamente, tolse dal taschino la penna laser e rimase lì in piedi, a gambe larghe, a frugare con gli occhi nell'ombra delle numerose nicchie e arcate del Colosseo. Niente si mosse.
Un rumore improvviso indusse Hunt a girarsi di scatto e quasi a spruzzare col sottile raggio del laser la superficie del portale. Vi comparve un braccio. Poi una gamba. Una persona emerse. Poi un'altra.
Il Colosseo echeggiò delle grida di Leigh Hunt.
Meina Gladstone sapeva già che, per quanto fosse stanca, avrebbe commesso una pazzia ad addormentarsi anche solo per trenta minuti. Ma fin da bambina si era allenata a sonni brevi che andavano da cinque a quindici minuti, per eliminare con quei brevi intervalli la stanchezza e le tossine della fatica, senza pensare a niente.